Il sogno siciliano di Dalì tra amore, nostalgia… ed un elefante
L’artista catalano, principale esponente del Surrealismo pittorico, continua ad affascinare ogni generazione con le sue immagini misteriosamente oniriche. Ma pochi immaginano, tuttavia, che alcune di queste sono strettamente legate ad un breve viaggio che nel 1938 lo vide ospite nell’isola insieme alla moglie Gala. Non si conosce precisamente l’itinerario, ma qui il grande artista si sentì subito a casa, e ne nacque un celebre dipinto. E qualche anno dopo, un altro particolare del suo viaggio potrebbe essere affiorato altrove…
In una iconica scena del film di Woody Allen Midnight in Paris – che ruota intorno alla bizzarra vicenda dello scrittore Gil Pender, che ogni notte si ritrova catapultato indietro nel tempo, agli anni ’20 del Novecento – il protagonista si imbatte in alcuni dei maggiori esponenti del Surrealismo: il fotografo Man Ray, il regista Luis Buñuel e, soprattutto, il pittore Salvador Dalì. Gil, che nelle sue peripezie a cavallo tra i secoli si è invaghito di una donna che non appartiene alla sua epoca, è decisamente angustiato e finisce per chiedere consiglio a quegli improbabili confessori. Ed ecco che ognuno di loro, sguinzagliando l’impeto del proprio estro, fornisce una risposta che li definisce pienamente. «Un uomo innamorato di una donna di un’altra epoca. – dirà Ray – Io ci vedo una fotografia». «Io ci vedo un film» affermerà dal canto suo Buñuel. «Io ci vedo… un rinoceronte» sarà, invece, la chiosa di Dalì. Se, da un lato, l’umorismo yankee di Allen ha trovato felice corrispondenza nell’inclassificabile poetica dell’artista catalano, dall’altro il senso di una simile affermazione si spiega con l’abitudine di Dalì ad includere, nelle sue tele visionarie, animali di vario tipo, spesso di grossa taglia. E se al rinoceronte spetta un ruolo di primo piano nello stuzzicare il suo immaginario, ne esiste un altro, dal non meno misterioso legame logico, che ricorre non di rado: l’elefante. Pochi immaginano, tuttavia, che per addentrarsi in alcuni dei più affascinanti misteri racchiusi nell’iconografia di Dalì potrebbe essere necessario l’ausilio di un punto di vista squisitamente siciliano. Perché più volte il grande pittore rimase ammaliato da ciò che i suoi viaggi italiani gli avevano condotto sotto agli occhi. E l’isola, con la sua naturale essenza onirica, non poteva certo fare eccezione. Anzi: divenne addirittura un luogo di osservazione e di riflessione privilegiato. Al punto da lasciare traccia, talvolta con delicatezza quasi impercettibile, in alcune delle sue opere.
Il merito di questo avvicinamento fu, principalmente, della compagna di una vita: quella Elena Dmitrievna D’jakonova cha dalla Russia, artista anch’ella, si era trasferita in Francia poco più che adolescente, stregando i cuori di mezza Parigi con il suo inconfondibile charme. L’amore con Dalì, furioso, incontenibile, tenero, azzardato, quasi misticamente devozionale, era presto sconfinato in un sodalizio dell’anima, della mente. I due condividevano spunti intellettuali, folgoranti visioni, suggestive traversate dell’Europa. Gala, come dolcemente Dalì amava soprannominarla, era, per l’appunto, una grande cultrice del Belpaese. È lo stesso pittore, nella sua autobiografia intitolata La mia vita segreta, a mettere in risalto la forza trainante della compagna: «Gala stava svegliando il mio interesse per l’Italia. Il Palladio e il Bramante mi apparivano di giorno in giorno con maggior chiarezza i più perfetti realizzatori di compiutezze umane nel campo dell’estetica, e cominciavo a desiderare di toccare da vicino questi prodotti di un’intelligenza materializzata, prodotti concreti, da misurarsi, e perfettamente non necessari». Le occasioni per realizzare questo proposito non erano certo mancate. Ma una, in particolare, risultò decisamente propizia. Nel marzo del 1938 i due coniugi furono ospitati a Roma dal barone britannico Gerald Berners per un paio di mesi, in una residenza che si affacciava sul Foro Romano. La permanenza nella capitale fu l’occasione per viaggiare agevolmente in lungo e in largo per lo Stivale. La scelta, quasi immediatamente, ricadde proprio sulla Sicilia. Fu un soggiorno abbastanza breve e non è noto, con precisione, quale sia stato l’itinerario seguito. Ma è affidandoci sempre ai ricordi di Dalì che è possibile ricostruire un curioso aneddoto. In quello stesso anno, infatti, l’artista catalano aveva realizzato la tela Impressioni d’Africa. Un omaggio alle atmosfere, alle eleganze calde ed esotiche, a quel senso di atavica e familiare meraviglia che aveva riscontrato tra le strade dell’isola. «In seguito, mi trasferii nello studio che lord Berners possedeva al Foro romano; ci restai due mesi, – scrive ancora nella sua autobiografia – e dipinsi Impressioni d’Africa, conseguenza diretta di un breve viaggio in Sicilia, dove avevo trovato unite e confuse reminiscenze della Catalogna e dell’Africa».
La Sicilia, insomma, aveva fatto breccia al punto da invadere i colori, le immagini, i sogni della pittura di Dalì. Persino oltre l’apparenza. Un altro dettaglio, scrutando attentamente la sua produzione, appare infatti legato alla sua visita siciliana. Nel 1946 realizzò La tentazione di Sant’Antonio: un dipinto a tratti inquietante, nel quale, quasi spalle al muro, rimpicciolito dinanzi al gigantismo dei suoi tormenti, il santo brandisce un crocifisso per invocare la liberazione dalle sue visioni. Un cavallo imbizzarrito capeggia questa sinistra schiera. Dietro di lui, cinque elefanti. Ben in vista al centro del quadro, eccetto uno, defilato sullo sfondo. L’opinione condivisa è che la fonte d’ispirazione principale sia stato il monumento realizzato da Bernini a Roma, in Piazza della Minerva. Ma se quell’obelisco, quella forma spiccatamente tondeggiante fosse in realtà indizio anche di qualcos’altro? Di un transito mai del tutto svelato, di uno sguardo fugace ma sufficientemente profondo? Chissà, forse al Liotro che già da due secoli si ergeva al centro di Piazza del Duomo a Catania?

Ma svelare per intero gli enigmi del pennello di Dalì sarebbe forse troppo pretenzioso. Per non dire impossibile. Sono anche le ombre, i chiaroscuri, i non detti e i non rappresentati, le scene al buio, le quinte nascoste ad averne eretto il mito. «Sono il primo a essere sorpreso e spesso terrorizzato dalle immagini che vedo apparire sulla mia tela». Un mito che qua e là, sottopelle come gli incanti che invadono il sonno, parla ancora siciliano.
(In copertina: Salvador Dalì, Impressioni d’Africa, 1938)
