Infelice è chi ama i fantasmi: “Diana e la Tuda”, il dramma pirandelliano dell’imperfezione
Confinare i mutamenti del tempo nell’eterna fissità di un gesto. È questa l’ossessione da cui l’arte, nel bene e nel male, non riesce a sottrarsi. Il dilemma, d’altro canto, è di quelli che farebbero impallidire persino le inquietudini di Amleto: può l’uomo conferire l’eternità al prodotto del suo ingegno? E davvero sforzarsi di incastonare questo sforzo all’infuori di ogni finitezza equivale a prolungarne la vita? Cosa dovrebbe, alla fine, prevalere: l’aspirazione dell’artista di plasmare la realtà sulla scorta del proprio genio o l’essenza indipendente dell’opera. È un tema di conoscenza, naturalmente. Ma anche, e soprattutto, esistenziale. Tanto che il quesito, scavallando agevolmente l’ambito artistico, finisce per dettare la propria insistenza anche nel perimetro delle relazioni umane. Si prenda, ad esempio, ciò che accade in presenza di un sentimento amoroso: quante volte si è finiti per infatuarsi di un’idea piuttosto che della persona? Quante volte lo schema predeterminato delle aspettative ha preso il sopravvento sulla solidità di ciò che esiste? Quello che anima e tormenta l’uomo, allora, più ancora che il dualismo tra contingente e perenne, è forse quello tra ombra e carne. Tra apparenza e sostanza. L’interferenza tra le disperate pretese dell’egoismo e la poco rassicurante lucidità della coscienza. È, insomma, uno di quei crucci tipicamente pirandelliani. E, in effetti, uno dei drammi dello scrittore girgentino, miscelando sapientemente amori, gelosie, illusioni e meschinità, vi si sofferma prendendo le mosse da un atelier. Diana e la Tuda, rappresentato per la prima volta in Italia nel 1927, segue infatti la vicenda del giovane scultore Sirio Dossi e della sua martellante utopia: realizzare una statua con le fattezze della dea greca che rappresenti l’ideale della perfezione. In questa spasmodica ricerca dell’impossibile, l’artista si avvale di Tuda, la modella sul cui aspetto egli ha deciso di tratteggiare le sinuosità del marmo. Sullo sfondo di questa singolare liaison si muove Nono Giuncano, navigato maestro di Siro che da anni ha abbandonato la sua arte. Quello che in prima battuta appare, tuttavia, come un ambizioso proposito si rivela ben presto, agli occhi dello spettatore, come un meccanismo perverso e privo di ogni sensibilità.
Durante le lunghe sedute di sbozzatura del marmo, infatti, Sirio costringe Tuda ad assumere pose estenuanti, al punto da fiaccarne l’umore. Più che una modella, nelle mani di Dossi la giovane appare come una bambola inanimata, un semplice mezzo per avvicinarsi al fine tanto agognato. Un dialogo tra i due, nel corso del quale Tuda adombra la possibilità di posare anche per altri artisti, rivela la malsana natura del loro rapporto:
«Tuda: Ne sei geloso? Ma quando un artista vuole una modella tutta per sé, sai che fa? la sposa, caro!
A uno sguardo sprezzante di Sirio:
Perché? Ti parrebbe disonore? Tanti hanno fatto così. E con certune che non valevano neanche un’unghia del mio piede.
Sirio: Quanto ti dà?
Tuda: Caravani? La posa; niente più.
Sirio: Ma una di quelle sue clienti là non gli servirebbe meglio?
Tuda: “Una di quelle sue clienti là…” Ti dico che farà il ritratto anche alla tua amica. Del resto, come m’hai veduta tu da Diana, potrebbe avermi veduta anche, lui.
Sirio: Perdio, non lo dire!
Tuda: Un corpo come il mio…
Sirio:Ti darò il doppio, il triplo, quattro, cinque volte di più, purché la smetta! Ti dico che non posso tollerarlo!
Tuda: E tu sposami!
Sirio: Finiscila!»
Ciò che Sirio ha maturato nei riguardi della sua collaboratrice non è riconoscenza né sincero sentimento: è solo, piuttosto, una sinistra pretesa di possesso. Come il risultato della sua arte, la vita di quella sventurata fanciulla è ormai annullata, interamente assorbita dalla sua controparte di marmo. E mentre avanza il sospetto che Tuda sia ormai poco più che un fantasma nella percezione di Dossi, una frase del vecchio Giuncano lo tramuta in realtà: «Fumo – dice rivolgendosi alla modella – e ti vedo nell’ombra. Sì, cara… morta. Appunto perché ti vuole ferma così». Pur di non perderne i servigi, Sirio si convince a sposarla. Ma è solo un’azione di facciata. Sempre più prigioniero di una insanabile follia, lo scultore si lascia attraversare dalla prepotenza. Tuda, che amaramente comprende di essere stata usata ancora una volta, cade nel più profondo degli sconforti. Rifiutando le sincere avance di Giuncano, la donna arriva persino ad odiare il riflesso della sua immagine marmorea. Come Dorian Grey, che sfiorisce mentre il suo ritratto prende progressivamente colore, così il corpo e l’anima della modella sembrano sgretolarsi dinanzi a quel biancore inanimato: «Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui: ma ero di carne io! di carne che mi s’è macerata così! Come faccio ora? come faccio!».
Perché Sirio non ama che sé stesso. E l’immagine immobile, astratta, incorporea di ciò che ancora deve nascere. Ama non chi si è prestata a tutto per la sua felicità, ma l’egocentrica e malata suggestione. Tuda, nelle mani abili ma crudeli dello scultore, è la vittima per eccellenza. Il triste trionfo della tracotanza umana. La dimostrazione che a volte l’arte – e fuor di metafora l’uomo nel suo agire – può uccidere fermando il tempo e la sua vitalità.
Presa da un ultimo sussulto di volontà, Tuda si lancia contro la statua per riottenere ciò che quella inconsapevolmente le aveva rubato, quasi a voler diventare un unico essere. Sirio, temendo la distruzione della sua unica ragione di vita, la minaccia di morte. E così Giuncano, senza pensarci due volte, lo aggredisce e lo strozza. «Giuncano si solleva appena, con un viso da pazzo e la mano ancora artigliata. Sirio è immobile a terra: morto. Tuda, quasi senza voce, allibita, ancora su l’ultimo dei tre scalini, si china a guardare. Ucciso per me, per me che ho la colpa di tutto! Perché non seppi essere quella per cui lui mi aveva voluto». Senso di colpa e impotenza. A questo giungono i tre personaggi. Sirio, ucciso dall’ossessione che lo aveva privato di ogni umanità; Tuda, abbattuta da una violenza e da una umiliazione ormai introiettate; Giuncano, che per sfuggire al male oscuro dell’illusione aveva distrutto ogni sua opera e si ritrova comunque, nella sua strenua difesa della vita, ad essere sconfitto.
La perfezione, anche nell’arte, ci suggerisce Pirandello, è qualcosa di irraggiungibile. Ma c’è forse, ancora più in fondo a questo abisso dell’umano, qualcosa di più scottante. La consapevolezza che l’amore non vive di preconcetti, fantasmi, egotismi o imposizioni. Ma solo nell’accettare che esistono realtà al di là dei desideri più radicati.