La forza di lasciare andare: Pirandello e il peccato di vivere come ombre
Alle soglie di un cimitero, due uomini, o meglio due spettri in attesa di passare oltre, si ritrovano a conversare e a fissare il luogo dove risiedono i propri corpi. “All’uscita” sembra un dialogo, ma è forse una confessione: un turbinio di rimpianti e di dubbi che persistono. Fino a quando un incontro in atteso non cambia le carte in tavola. E lascia comprendere che spesso i veri morti sono coloro che rimuginano e rinunciano
Quando apparve per la prima volta sulle scene, al Teatro Argentina di Roma, nel settembre del 1922, il suo autore la definì come un “mistero profano”. Forse perché, qualche anno prima, era sgorgata dalla sua penna con l’intenzione di essere una commedia. Di essere narrazione su carta. Solo che poi qualche impresario insistente – o particolarmente illuminato – si sarà impuntato sull’opportunità di orchestrarla su un palco. Ed ecco che il mistero, così come i personaggi improvvisamente materializzati fuori dalle loro polverose pagine, aveva assunto carnalità. Ma c’è un altro paradosso che gli corre di fianco: il fatto che quel mistero è anche un compagno di quotidianità. Una riflessione accennata, spezzata dal vorticoso fluire dei giorni, capace di rannicchiarsi carsicamente dietro anni di indifferenza, di incomprensioni, per poi riaffiorare e profondere in superficie quando è troppo tardi per poterla arginare. Perché All’uscita di Luigi Pirandello dovrebbe interrogarsi sulla grande, infinita, annosa questione della morte. E lo fa, certamente. Ma è anche un affresco soffuso, minimale, chiuso nel fulmineo dispiegarsi di un unico atto, nel quale a svettare è anche, e soprattutto, un intenso insieme di considerazioni sulla controparte: la vita che si ostina a non piegarsi. Che cerca sé stessa anche dove non c’è più speranza di ritrovarsi. Che ripercorre all’indietro le proprie traiettorie, fino ad individuare il punto da cui si è originata una deviazione fatale. Ed è decisamente pirandelliano che a conversare amabilmente di tutto questo siano, alle soglie di un cimitero di paese, due ombre, due spettri che fissano le tombe i cui sono contenuti i loro corpi. Uno, l’Uomo grasso, ha un aspetto contrito: sta attendendo di essere raggiunto, in quella dimensione così surreale, dalla moglie che per tutta la vita lo ha tradito. Vorrebbe forse chiederle il perché. Trovare il senso a quei giorni spesi aggrappato ad un amore infelice. Ricordare, ancora per un po’, degli attimi di trascurabile felicità. L’altro, invece, è un Filosofo. Un uomo dedito al pensiero, interessato alla sorte di quell’improbabile compagno. Una sorta di coscienza, di guardiano, sotto i cui occhi, ciclicamente, si compie questo trapasso.
È proprio quest’ultimo ad attaccare bottone. Ad indagare, a domandarsi cosa mai possa crucciare il suo interlocutore, che tutto dovrebbe ormai aver dovuto lasciare alle spalle. E che invece rimpiange, rimugina. Quasi a voler rimandare l’inevitabile, consumato da un ingorgo di rimpianti. «Un’ultima ombra d’illusione – sostiene il filosofo – persiste ancora in noi. Ci piace ancor tanto ritenere la nostra vana parvenza, che dobbiamo ancora aspettare, per liberarcene, ch’essa a poco a poco si diradi e dilegui. Già voi, forse per effetto dei miei discorsi, mi sembrate un po’ più rarefatto. Ah, ecco: è bastato che ve lo dicessi: vi riaddensate subito, povera ombra. Che vi ritiene? Siete grasso, ma sembrate così malinconico». Il dialogo, repentinamente, sembra quasi assumere i contorni di una confessione: «Ho un rammarico. Non so. Vedo ancora il giardinetto della mia casa al sole. Un tappetino verde, alla finestra. La vasca, con lo specchio d’acqua in ombra. E i pesciolini rossi – ribatte l’Uomo grasso – che vengono come a mordere a galla. Le piante attorno guardano attonite i circoletti che s’allargano nell’acqua silenziosi. Io sono ancora là, tra il respiro fresco delle nuove foglioline, come una vecchia foglia morta che non sappia ancora staccarsi. La vedo: c’è davvero là questa foglia morta; aspetto che un soffio la faccia crollare; e allora forse, come voi dite, dileguerò». Qualcosa lo trattiene. In morte, adesso, così come era stato in vita. È l’attesa spasmodica di qualcosa, il fascino e il terrore della sospensione a cui non segue mai, però, uno slancio vitale, un’azione che incide. Il dubbio atroce, sinistro, di aver sprecato o tralasciato.
Sul palco di questa recita esistenziale un nuovo colpo di scena squarcia l’attenzione: la moglie dell’Uomo grasso si è unita alla comitiva. Il suo amante l’ha uccisa. Ogni ragione pare crollare sotto i colpi di quella devastante evidenza. La donna delira, ride nervosamente, ingiuria. Ma un evento inatteso ne cambia l’attitudine. Un bambino, con in mano un melograno, transita dinanzi a loro. Il suo ultimo desiderio è quello di mangiare il frutto nella sua interezza. Lacrime liberatorie solcano il viso di lei, mentre imbocca il fanciullo. Poco dopo, si è già dileguata. E così il marito, che ha assistito alla sua catarsi.
Le ombre lasciano la terra. Gli spettri hanno esorcizzato la loro inquietudine. Hanno saputo perdonare. Sé stessi, in primis. Hanno saputo lasciare andare: le scorie, le incertezze, le contrarietà. Si muore, suggerisce il dramma pirandelliano, quando ci guardiamo vivere. Quando affolliamo i nostri giorni di tentennamenti, di sovrastrutture, di passi attorcigliati. Quando ci inchiodiamo alle cose che non comprendiamo, agli errori che non ci perdoniamo di aver fatto, ad un’esistenza pensata, accanto alla quale scorre il coraggio che non abbiamo afferrato mai. Si muore non quando ci si dilegua, ma quando si resta. Seduti su un muretto, a fissare il tormento di cui non riusciamo a liberarci. Come il Filosofo, che altro non sa fare se non congetturare. Se non guardare il mondo da dietro le sbarre della propria mente. «Ho paura ch’io solo resterò sempre qua, seguitando a ragionare».
(Immagine in copertina: “All’uscita”, sceneggiato televisivo del 1971)
