La novella che nessuno volle leggere: Verga e l’orrore senza fine del femminicidio
Troppo scabroso, troppo ricco di dettagli crudi. Fu ricevuto così “Tentazione!”, racconto verghiano del 1883 che suscitò l’indignazione del pubblico. Che non accettava di vedersi riflesso in quella mostruosa normalità: la storia di una contadina, violentata ed uccisa per le strade di Milano da tre uomini in cerca di uno sfizio perverso, umile simbolo delle vittime della cultura del possesso. Ma quel testo, a quasi un secolo e mezzo di distanza, alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, torna a bussare con forza. E a ricordarci che, in realtà, come le cronache di ogni giorno testimoniano, al suo racconto non è mai stata messa la parola fine
Lo hanno definito come un rigido e incallito conservatore. Qualcun altro, forse nel tentativo di mitigare il proprio giudizio, ne ha messo in luce in tratti della personalità più schivi, burberi, scontrosi. Altri ancora, esprimendo dei punti di vista a dir poco controversi che non molto tempo fa hanno generato un acceso dibattito, hanno persino adombrato l’idea che i suoi scritti andrebbero banditi dai manuali di scuola. Ma è in questo, probabilmente, che Giovanni Verga testimonia ancora la sua grandezza: nell’essere divisivo. Nell’offrirsi, a questa schiera più o meno appassionata di detrattori che rifuggono le acque profonde degli abissi limitandosi a sostare poco oltre la riva dei loro preconcetti, come uno scomodo scoglio con cui, prima o poi, dover fare i conti. Forse, per dirla con modi freudiani, Verga è essenzialmente un perturbante: un riflesso scomodo, talvolta persino sinistro, in cui la società preferisce non specchiarsi. Perché farlo significherebbe finire stritolata dalle spire delle sue stesse storture. Esaminare sé stessa e l’ipocrisia della propria morale. Meglio allora, oggi come ieri, tenerlo a debita distanza. Sotterrarlo di indifferenza, tacciarlo di anacronismo, etichettarlo come trito e scontato. Ma arriva un momento in cui le sue parole, insieme con quei personaggi che nessuno degnerebbe di uno sguardo, tornano prepotenti a chiedere il conto. Magari in giornate come queste, alla vigilia della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Magari con una novella oscura, cupa, che l’opinione pubblica marginalizzò immediatamente – e in parte continua tuttora – come qualcosa di sconveniente, di inaudito. Magari con la storia apparentemente insignificante di una umile contadina tra le strade della immensa Milano. Una storia che si regge sugli spettri di una mostruosa normalità. Che oggi, come ieri, un secolo e mezzo dopo, si fa portavoce di una inquietante immobilità dell’animo umano.
Apparve, questa fulminante novella – poi inserita nella raccolta Drammi intimi – nel 1883 sulla rivista Gazzetta del popolo della domenica. Il titolo, Tentazione!, già di per sé parecchio eloquente. Scabrosa, cruda, così vera da fare accapponare la pelle. Venne subito disdegnata, stigmatizzata, ritenuta il frutto di chissà quale isterismo letterario. Né la borghesia, tratteggiata in tutta la sua inconcludenza e fatale frivolezza, né il ceto medio, rapace e imbruttito dagli eccessi, avrebbero mai potuto apprezzare il testo verghiano: sarebbe stato come ammettere la propria colpevolezza. Confessare dinanzi al tribunale della storia la meschinità dei propri istinti e dei propri retaggi patriarcali. Incorniciati, per l’occasione, nei volti di Ambrogio, Carlo e del Pigna, di mestiere sellaio. Nel loro perverso desiderio di fare bisboccia ad una festa di periferia. Nella ciondolante e molesta ubriachezza del tragitto di ritorno. «Per acchiappare il tramvai, verso sera, fecero un bel tratto di strada a piedi. Carlo, che era stato soldato, pretendeva conoscere le scorciatoje, e li aveva fatto prendere per una viottola che tagliava i prati a zig zag. Fu quella la rovina! Come accade, parlavano di donne, e dell’innamorata, ciascuno la sua. E lo stesso Ambrogio, che sembrava una gatta morta, raccontava per filo e per segno quel che succedeva con la Filippina, quando si trovavano ogni sera dietro il muro della fabbrica». Le chiacchiere del gruppo, imbevute di un machismo tutt’altro che latente, appaiono come il triste presagio di ciò che di lì a poco sarebbe accaduto. L’incrocio con una giovane colpevole solo di aver imboccato la stessa strada. «Dopo un po’ raggiunsero una contadina, con un paniere infilato al braccio, che andava per la stessa via. — Sorte! — esclamò il Pigna. — Ora ci facciamo insegnar la strada —. Altro! Era un bel tocco di ragazza, di quelle che fan venire la tentazione a incontrarle sole. — Sposa, è questa la strada per andare dove andiamo? — chiese il Pigna ridendo. L’altra, ragazza onesta, chinò il capo, e affrettò il passo senza dargli retta. — Che gamba, neh! — borbottò Carlino. — Se va di questo passo a trovar l’innamorato, felice lui!— La ragazza, vedendo che le si attaccavano alle gonnelle, si fermò su due piedi, col paniere in mano, e si mise a strillare: — Lasciatemi andare per la mia strada, e badate ai fatti vostri».
Tutto precipita in un vortice spaventoso. Verga, come raramente gli era capitato di fare, indulge sui dettagli. Assesta un colpo secco alle coscienze, le tramortisce con le urla strazianti della vittima, squarcia il velo della misura, mette in scena la catastrofe del possesso e della violenza. « — Un bacio almeno, cos’è un bacio? Un bacio almeno poteva lasciarselo dare, per suggellare l’amicizia. Tanto, cominciava a farsi buio, e nessuno li vedeva. – Ella si schermiva, col gomito alto. – Corpo! che prospettiva – Il Pigna se la mangiava con gli occhi, di sotto il braccio alzato. Allora ella gli si piantò in faccia, minacciandolo di sbattergli il paniere sul muso. — Fate pure! picchiate sinché volete. Da voi mi farà piacere! — Lasciatemi andare, o chiamo gente! — Egli balbettava, con la faccia accesa: — Lasciatevelo dare, che nessun ci sente —. Gli altri due si scompisciavano dalle risa». A nulla vale il tentativo di fuga. Sospiro dopo sospiro, rantolo dopo rantolo, resta solo il terrore. Al quale nemmeno lo stesso autore, che pure professava la validità del racconto impersonale, sembra riuscire a sottrarsi. Un terrore che nessuno accorre a diradare: « Carlino l’afferrò alla gola. — Ah! vuoi rovinarci tutti, maledetta! — Ella non poteva più gridare, sotto quella stretta, ma li minacciava sempre con quegli occhi spalancati dove c’erano i carabinieri e la forca. Diventava livida, con la lingua tutta fuori, nera, enorme, una lingua che non poteva capire più nella sua bocca; e a quella vista persero la testa tutti e tre dalla paura. Carlo le stringeva la gola sempre più a misura che la donna rallentava le braccia, e si abbandonava, inerte, con la testa arrovesciata sui sassi, gli occhi che mostravano il bianco. Infine la lasciarono ad uno ad uno, lentamente, atterriti. Ella rimaneva immobile stesa supina sul ciglione del sentiero, col viso in su e gli occhi spalancati e bianchi. Il Pigna abbrancò per l’omero Ambrogio che non si era mosso, torvo, senza dire una parola, e Carlino balbettò: — Tutti e tre, veh! Siamo stati tutti e tre!…». Nessuna edulcorazione. Nessuna patina letteraria. Solo un uomo, la sua penna e l’impulso irrefrenabile di mettere il male con le spalle al muro. I tre, dopo aver decapitato e occultato il cadavere, vengono rintracciati ed arrestati. Poi condotti in tribunale. La narrazione si interrompe sui loro reciproci sguardi torvi dietro le sbarre.
Ma il racconto, invece, non si interrompe affatto. Abbandona le pagine con spaventosa facilità. Occupa con arroganza l’orizzonte dei nostri giorni. Di tutti i nostri giorni. Vi scorre sopra come una maledizione senza fine. Che descrive i mostri come figure deformi. E che, invece, nasconde l’orrore dietro la risata di un sellaio o la sciatta prosaicità di un operaio.
(Foto in copertina: The kidnapping of Proserpina (1621–1622), by Gian Lorenzo Bernini. Galleria Borghese, Rome | Foto Wikimedia CC BY 3.0)