La speranza più forte del destino: Rosalia, “La rosa di zolfo” in una terra bruciata
Considerata come il capolavoro di Antonio Aniante, questa messa in scena affronta sì il grande tema della fatica e della miseria degli zolfatari, ma da un punto di vista inedito: quello di una donna di grande spirito, una gitana dal volto arabo, che sogna un riscatto considerato impossibile. Tra sogni, fughe e rivelazioni, l’elogio di un’attesa che, a volte, si rivela salvifica
Il destino, nella vita così come nella letteratura, è un titano minaccioso, ingombrante. Un giudice lunatico, che esamina oscillando tra la pietà e la solerzia, tra l’inflessibilità e la ragione. Aleggia come folata di vento, come turbine di sabbia: talvolta accarezza, talvolta ricopre. Si imbizzarrisce contro i sogni, si incaponisce nell’osteggiarli, li tramuta in miraggi ossessivi. E poi, volteggiando su sé stesso, senza annunciare la sua aggraziata e repentina inversione di marcia, vi offre accesso alla stregua di un premio da stringere dopo tanto peregrinare. Dal destino, inevitabilmente, si finisce dunque per fuggire. Per tentare di sottrarsi alla sua stella, alle sue strette, alle sue condizioni. Ma si finisce pure, inconsapevolmente per abbracciarlo, per inciampare nella sua morsa. Ed è forse in questa millenaria fisarmonica dell’anima, in questo istintivo andare e venire, nell’avventuroso e progressivo disvelarsi di verità e segreti che si condensa il nucleo fondante di ogni esistenza. Anche di quelle che col destino, sulla carta, non potrebbero iniziare nemmeno la più banale delle schermaglie. Quelle che sembrano perse, sbiadite, consumate dalla consuetudine del dolore. Inabissate nell’indifferenza generale, inaridite dalla miseria. Vite come quelle degli zolfatari, privati del cielo e di ciò che lo popola, ingabbiati dalla terra e dai suoi fumi primordiali. Vite siciliane come poche altre, intrinsecamente ancorate alla storia e allo spirito dell’isola. Vite che, tuttavia, di tanto in tanto, esulano dalla probabilità, dall’assodato. Come fa la giovane ed intrigante Rosalia, protagonista di La rosa di zolfo (1957), uno dei capolavori di Antonio Aniante, che veleggia con raffinatezza tra toni onirici, bislacchi e romantici. Perché Rosalia è un canto di libertà. È una gitana dai lineamenti arabi in cerca della propria corte dei miracoli, un cuore di ferro e sangue che rifiuta di piegarsi all’evidenza. Aspira a lasciare il paese dove ha conosciuto solo pianto per raggiungere Palermo. Si sbatte, si aggroviglia, si infervora mentre gli altri rimangono legati al proprio piccone.
«Ho sete, ho sete e non c’è acqua». È quasi un mantra, quello che Rosalia va ripetendo. Nelle sue parole, nei suoi gesti non convenzionali, Aniante lascia che si incarni un punto di vista diverso: quello di una donna, che non si cala nelle orrende gole della zolfara, ma che ne viene di riflesso soverchiata. Che vede nell’acqua, nel refrigerio della speranza, un’opportunità di riscatto. Rifiuta strenuamente di sposarsi fin che può, ma deve cedere alle pressioni del padre maritandosi l’umile Colao. Conduce una vita matrimoniale monotona, inconsistente. Si lascia andare a malinconici vagheggiamenti, diffidando dei tanti uomini che la corteggiano. Persino del conte Pàgnolo – il giovane che ha ereditato il possesso della zolfara dopo la morte del padre – che con il suo animo puro si inginocchia ai suoi piedi promettendole di rifornire il paese d’acqua solo per renderla felice e trarla fuori da quell’inferno. Ma quella che appare come un’imminente svolta si rivela il precipitarsi di un incubo. Colao rincasa e scorge il Pàgnolo in pose equivoche: lo sfida a duello, ignora la sua richiesta di compassione, lo uccide. Si dispera, farfuglia una richiesta di perdono, si dirige alla cava: la incendia e si getta in pasto alle fiamme. La meningite prende d’assalto Rosalia: che ha giusto il tempo di raccogliere le ultime forze e solcare la campagna verso una meta meno disperata.
È forse un sogno, quello che le accade? Il delirio di una malattia subdola? «Ah, come si galoppa bene nel sogno ad occhi aperti, non è vero, Rosalia? Galoppa, galoppa, o reginetta delle zolfare, dal paese senza acqua alle più alte sorgenti cristalline. Non una donna ma una piuma porta addosso il cavallino bianco che salta i fiumi d’un balzo e scavalca le alture e affronta le salite mulattiere a grande velocità. La direste un’amazzone che altro non ha fatto nella sua vita. Non una brutta piega prende la sua larga veste che sventola unitamente alla folta e lunga coda dell’animaletto. E corri salta vola che sei un amore, fino a raggiungere dal livello marino la bellezza di duemila metri d’altezza». Tra colline e porti, tra sentieri deserti e le affollate arterie palermitane, Rosalia finisce sempre per incontrare i volti che l’avevano tormentata. Un carabiniere e un portuale con le fattezze di Colao; un brigante e un mafioso con quelle di Pàgnolo. Il passato – o forse il presente? – sembra avere la meglio. La sua continua fuga non conosce salvezza, i fantasmi la perseguitano. Una nave è l’ultima risorsa: partire, chissà dove. Abbandonare tutto. Forse persino sé stessa. Ma poi, insieme a lei, ecco che il lettore si ridesta.
Colao sta bene. La zolfara non è un cumulo di cenere. C’è ancora qualcosa in cui credere. La malattia – quella del corpo e quella della volontà – lascia il posto ad uno squarcio di bene. L’aridità del fuoco alla rigenerazione dell’acqua. «Gesù, ti ringrazio d’avermi svegliata dal sogno che ho fatto, vivo è Colao e fa ritorno a me dalla bella zolfara, mandaci l’acqua per la sua minestra. (Fra bagliori di lampi e lontani tuoni, cala la tela)». La speranza ha vinto.
(Immagine in copertina realizzata con Bing Image Creator)
