La storia della baronessa di Carini: il delitto d’onore siciliano più famoso di tutti tempi?

La nobile Laura Lanza, nella versione più famosa, fu uccisa dal padre e dal marito per essere stata sorpresa con l’amante che la consolava per l’infelicità di un matrimonio imposto. Altri dicono che il motivo fu economico. I due carnefici furono assolti per aver difeso il decoro della famiglia: e la donna divenne leggenda per i racconti popolari ed esempio di vittima di una prepotenza che ci riporta ad una Sicilia che non vogliamo più rivivere

La letteratura è essenzialmente finzione. Magnetica, ammaliante, travolgente. Ma pur sempre finzione. Non per questo, però, incapace di gridare il vero più forte di quanto la realtà non faccia. Perché la realtà è come il tempo: passa inesorabile e porta con sé il processo del dimenticare. L’arte delle parole, invece, il tempo lo ha vinto e si è radicata nella nostra memoria. Insieme alle vicende che tramite la sua testimonianza sono diventate leggendarie. Una di queste è quella che coinvolge la nobile Laura Lanza. Non vi dice granché? Forse perché siete abituati a conoscerla con un altro nome: baronessa di Carini, in virtù di quel Vincenzo II La Grua barone di Carini, marito che a soli 14 anni, nel 1543, fu costretta a sposare a Palermo per volere del padre. La sua storia, divenuta ben presto celebre, ancora oggi fa una certa impressione, dal momento che, pare, si trattò di un vero e proprio delitto d’onore, se non – per usare una definizione tristemente nota dei nostri giorni – di femminicidio. Per di più impunito.

Quale fu il fattore scatenante dell’intero misfatto? Un episodio di marca flaubertiana, verrebbe da dire. Come una più datata Madame Bovary, infatti, la nostra Laura, trascurata da un marito troppo indaffarato nella gestione dei suoi possedimenti, trovò consolazione tra le braccia di un tale Ludovico Vernagallo. Era il 1563: sorpresi in “flagranza di reato” nelle sale del castello di Carini, intenti a scambiarsi tenere effusioni, non ebbero scampo e perirono sotto i colpi del marito e del padre di lei, in una scena che i posteri avrebbero raccontato con orrore a causa della sua crudezza. I due amanti, rinnegati come i Paolo e Francesca della Commedia dantesca, non ricevettero nemmeno la dovuta pratica del funerale e di loro non rimase altro che qualche annotazione sparsa in polverosi archivi e tracce di sangue sulle pareti che avevano assistito al delitto. Il poeta Salomone Marino, suggestionato dalla tragedia della baronessa, le dedicò una toccante lirica, il cui distico finale recita: «Lu primu corpu la donna cadìu/l’appressu corpu la donna murìu». Che ne fu dei carnefici, forse vi starete chiedendo. Ebbene, il Viceré spagnolo in Sicilia Juan de la Cerda, funzionario del re iberico Filippo II, concesse il perdono ad entrambi, per via della legge dell’epoca che permetteva agli uomini offesi dall’adulterio della consorte di vendicarsi con un delitto. Fu così che i due malfattori non solo scamparono alla legge, ma riuscirono a mantenere intatto il loro patrimonio. A testimonianza di un’aristocrazia dai poteri smisurati, capace di influenzare persino l’apparato giuridico di un intero regno. E fa impressione pensare che nel nostro Paese il delitto d’onore, nella casistica del quale il dramma della baronessa rientra di diritto, sia stato abolito soltanto nel 1981.

Il Castello di Carini

La gravità dei fatti venne così messa a tacere abbastanza in fretta. Ma il folklore e la letteratura, benché a volte con fatica, hanno tenuto accesa la fiammella della giustizia, così come gli sceneggiati Rai del 1975 e del 2007, benché quest’ultimo sia una storia originale in cui i fatti originali fanno solo da sfondo. Non è raro udire ancora dei racconti a proposito del fantasma di Laura Lanza che infesta il castello manifestandosi attraverso grida e strisciare di vesti, sebbene alcune ricerche negli ultimi anni abbiano avanzato l’ipotesi che il delitto d’onore fu solo una copertura per celare una resa dei conti nata per motivi economici. Come dicevamo, non importa che nella realtà non sia così, perché la verità del racconto, della fiaba che è succeduta ad un evento realmente verificatosi, ha contribuito a mantenerla in vita. A ricordarci che il celarsi della criminalità dietro la sua apparente aura di invincibilità, la violenza su donne colpevoli di desiderare una realizzazione personale più piena e separata dalla scialba figura dei mariti, lo sfruttamento dei potenti ai danni degli indifesi, sono temi che in Sicilia mostrano una notevole antichità e che periodicamente si sono ripresentati nella nostra storia. Sta a noi, imparando da parabole come quella della baronessa di Carini, impedire che si manifestino con la stessa forza. E la letteratura, in questo, può darci una grossa mano.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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