Le guerriere del sole
In Giordania il sole non manca di certo. Anzi, ce n’è perfino troppo. Serve imbrigliarlo, renderselo amico in una terra in cui la natura non sempre lo è. Rafea, in un villaggio al confine con l’Iraq rigidamente patriarcale, è riuscita a farlo. Ha imparato a costruire pannelli solari e oggi capeggia una squadra di 20 donne che permette alla comunità di immagazzinare energia attraverso una batteria. «Mi davano della folle: non capivano come la luce solare potesse trasformarsi in elettricità». Un faro di speranza in una terra colpita duramente dal climate change e arida come poche, dove l’acqua è un bene rarissimo e dove si lotta quotidianamente per il suo approvvigionamento
Per arrivare alla sua tenda nel villaggio di Manshia al Ghaiath, si cammina per lungo tempo nel deserto, oltre Ruwaished, al confine tra Giordania e Iraq, dove le lunghe strade asfaltate lasciano spazio allo sterrato e i filari delle antenne elettriche smettono di svettare contro il cielo indaco. Rafea Rahmad Fahadil-Hamed ci accoglie con il suo abito tribale, lavorato a punto croce, rosso e nero, e mette subito in funzione tutto il sistema elettrico a panelli solari: tra poco sarà Maghreb, la preghiera del tramonto. Ci sono sessanta minuti scarsi di luce: il sole tramonta in fretta. Ma è proprio da questo momento della giornata in poi che si apprezza il lavoro delle “guerriere del sole”: venti donne di questa comunità che hanno imparato a costruire pannelli solari, in un villaggio di allevatori di cammelli a struttura fortemente patriarcale. Il marito di Rafea, Abu Abdallah, – un uomo segaligno, che fa la spola tra lo stipite della porta della tenda e il recinto dei cammelli – si dichiara molto orgoglioso della moglie, nonostante il sopracciglio resti costantemente aggrottato: e, dentro la tenda, decorata in rosa, come alcune strutture a mattoni vicini, troviamo tutte le venti, intente a montar circuiti. Intorno sciamano i bambini, già al rientro dalla scuola – le femmine con le cartelle rosa più grandi delle loro schiene, i maschi già dietro a un pallone in cortile, con il filo dei panni a stendere scelto come delimitazione per una porta immaginaria oltre la quale fare goal.
«Qui siamo tutte analfabete, ma riusciamo a costruire circuiti e pannelli solari senza alcun problema. Tutto è nato quindici anni fa, quando sono stata selezionata dalla ong Barefott College e sono finita nel Rajastan indiano ad imparare il mestiere»
Rafea Rahmad Fahadil-Hamed
Guardandosi intorno non si fatica a capire che qui c’è poca acqua, tanto vento e troppo sole: se è difficile trovare la prima, sul secondo e sul terzo la natura in Giordania non lesina. E Rafea, avendo intuito che poteva essere la chiave sia per la crescita del villaggio che per la sua indipendenza, ha preso la palla al balzo e ha aderito a un programma nazionale di empowerment femminile, sponsorizzato anni fa dal fondo della regina Rania di Giordania, dal ministero dell’Energia giordano e da UNDP, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo delle donne nel mondo. «Qui siamo tutte analfabete – dice, presentando le amiche e sodali – ma riusciamo a costruire circuiti e pannelli solari senza alcun problema». La pioniera è lei: «Quindici anni fa sono stata selezionata dalla ong Barefott College e sono finita nel Rajastan indiano ad imparare il mestiere». La ong selezionava donne analfabete da villaggi sparsi tra diverse aree dell’Africa subsahariana e dell’Asia per sviluppare la tecnica green dei pannelli solari, ai fini di ottenere un doppio vantaggio: per l’ambiente e per le comunità rurali. Gli inizi non sono stati semplici per Rafea: in sostanza, nel villaggio, la prendevano per pazza. «Non riuscivano a concepire come si potesse generare elettricità dal sole: non so se fosse un problema culturale o solo un modo per trattenermi e non farmi andare. So solo che l’ho spuntata ed è stata una vittoria». Mentre Rafea racconta con aria di sfida le giovani sorridono e le più anziane la guardano con sussiego: non possono fare altro che darle ragione. «E infatti avevo ragione – rimarca –. Dopo due anni qui facevano la fila per partecipare al mio progetto». Tornando dall’India, Rafea ha portato con sé ben ottanta pannelli solari di medie proporzioni: ogni pannello illumina cinque lampade a muro per ogni tenda e consente adesso di ricaricare un paio di cellulari. A sua volta, il pannello solare si collega a una batteria che riesce a immagazzinare energia e che le donne del villaggio costruiscono correntemente e riparano. «In questo progetto l’idea era trasmettere il sapere: così, appena sono arrivata, ho insegnato ad altre donne come utilizzare gli attrezzi e finalizzare il prodotto».
Gli abitanti della Giordania, uno dei Paesi più aridi al mondo, sono da tempo abituati a una fornitura idrica domestica di sole 36 ore a settimana. Ma di recente, anche quel magro flusso è stato ridotto dagli effetti del cambiamento climatico, nonché dalla crescita esponenziale della popolazione, soprattutto nelle aree urbane
Rafea è andata anche oltre: ha creato una scuola aperta dalle otto del mattino alle tre del pomeriggio, ossia durante l’arco del tempo più libero per donne che hanno figli in età scolare e mariti a lavoro. «Ho chiesto alle donne a che ora volessero organizzare i workshop: non volevo problemi con le loro famiglie», rivela. Oggi sono più di cento le case del villaggio che usufruiscono di energia solare e dei benefici del progetto, moschea compresa, e i workshop sono pienamente attivi con ben sei insegnanti operative. Umm Tamam Atef, una bella donna beduina con un piercing alla narice e tatuaggi all’henna, ci tiene a spiegare come Rafea e le altre sei siano riuscite a navigare in questo difficile mare delle consuetudini del villaggio: «Rafea ci ha incoraggiato moltissimo. Purtroppo, qui abbiamo regole molto tradizionali per le donne: è difficile uscire da ruoli prestabiliti perché i divieti vengono motivati con argomenti religiosi. Ci viene detto cosa fare e cosa non fare, cosa è peccato e cosa non lo è. Per esempio, uscire sole non è concepibile: dunque, figuratevi cosa è successo quando Rafea è andata in India. Ma adesso siamo tutte più indipendenti e con meno barriere. Rafea ci ha reso donne migliori». Non solo: Umm Tamam Afef si è candidata a membro del consiglio di zona locale ed è stata eletta nella municipalità di Ruwaished. Ha voce in capitolo, soprattutto quando si tratta di risorse energetiche, di problemi sociali, di fondi per mantenere il benessere già raggiunto. Adesso, il problema è tenere in vita il progetto: «Avevamo i fondi di USAID ma da quando il presidente Trump ha congelato le iniziative dell’agenzia statunitense siamo in difficoltà», rivela Rafea.
GLI EFFETTI DEL CLIMATE CHANGE. Come questo, molti altri progetti vitali per la popolazione in Giordania non ricevono più fondi. La guerra regionale, iniziata il 7 ottobre 2023 con l’attentato di Hamas nei kibbutz israeliani ai confini con Gaza e proseguita nella Striscia con l’offensiva militare israeliana che ha fatto più di 40mila morti palestinesi, ha influito enormemente sull’economia del Paese che ospita oltre un milione e trecentomila rifugiati palestinesi, iracheni, siriani, yemeniti e sudanesi e che ha più di 160 scuole e cliniche finanziate da URNWA. In crisi c’è anche tutto il settore dei finanziamenti all’energia green, implementato in questi anni con decisione dai ministeri giordani, e spinto in previsione degli accordi rinnovati con Israele sullo sfruttamento idroelettrico del fiume Giordano. Da questo punto di vista, gli abitanti della Giordania, uno dei Paesi più aridi al mondo, sono da tempo abituati a una fornitura idrica domestica di sole 36 ore a settimana. Ma di recente, anche quel magro flusso è stato ridotto dagli effetti del cambiamento climatico, nonché dalla crescita esponenziale della popolazione, soprattutto nelle aree urbane mentre le infrastrutture danneggiate o inefficienti (come acquedotti, cisterne, invasi) hanno solo peggiorato le cose. Tutte le principali fonti d’acqua del Paese si trovano vicino al confine con Siria e Israele e l’acqua deve essere trasportata nell’entroterra, in un processo sempre più costoso, a causa dell’aumento dei prezzi del carburante. Le precipitazioni sono diminuite drasticamente negli ultimi decenni e le temperature più calde fanno evaporare rapidamente la poca pioggia che arriva. Le estati più lunghe e calde hanno già accorciato le stagioni del raccolto per gli agricoltori, con effetti evidenti se si guarda ad alcuni indicatori in natura: come il percorso deviato degli uccelli migratori e la qualità e quantità del miele prodotto dalle api, sempre meno presente in collina e adesso riscontrabile solo in altura.
La guerra dell’acqua ha un ruolo non indifferente. I fiumi utili alla Giordania sono condivisi con difficoltà tra i vicini: per molti anni Israele e Siria hanno deviato l’acqua del Giordano e dello Yarmuk a monte per il proprio uso. Da qui, un’eccessiva dipendenza di Amman dall’estrazione di acqua sotterranea dalle falde acquifere
LA FUGA DELLE API. Come nella zona di al-Karama, vicino il Mar Morto, dove risiede uno dei 2mila siti della Daour honey production. Il direttore dell’azienda, apicultore e produttore, il signor Ahmad al-Dour, confessa la sua frustrazione. «Adesso, da 13 anni, il fiore di limone nel Sud non c’è più. Anche i fiori selvatici stanno diminuendo. Prima spuntavano dappertutto, anche sul ciglio delle strade e le api erano felici, nutrendosi da questi fiori selvatici. Adesso è tutto cambiato. Non c’è nemmeno la stessa geografia delle piante perché le temperature sono più calde e anche le piante selvatiche fioriscono altrove, per esempio dal Sud si spostano al Nord, così come al Nord altre piante hanno spostato la loro fioritura sulle montagne. Le api si comportano di conseguenza». Tuttavia, almeno per ora, l’azienda del signor Ahmad sta riuscendo a produrre comunque un buon quantitativo di miele di qualità. Non sa, però, per quanti anni ancora potrà durare, specie nella misura in cui aumenterà il rischio desertificazione.
LOTTA ALL’ULTIMA GOCCIA. «Il cambiamento climatico sta colpendo la Giordania in modo davvero aggressivo negli ultimi due anni e l’attuale congiuntura politica non aiuta». Motasem Saidan, ex ministro delle risorse Idriche e professore all’Università della Giordania, vuole essere chiaro. Il fiume omonimo del Paese è quasi in secca. La portata del fiume Giordano è inferiore al 10 percento della sua media storica e il fiume Yarmouk, un importante affluente, è notevolmente diminuito. Le acque – un tempo impetuose – del Giordano e che alimentavano il Mar Morto, sono in secca. Così, questo incredibile lago di acqua salata sta scomparendo. Secondo il professore Najib Abu Karaki, geologo e rettore dell’Università al-Hussein bin Talal, «sul letto del Mar Morto si trovano dei crateri grandi e profondi. Quando il Mar Morto aveva una superficie di mille chilometri quadrati, la situazione era molto diversa rispetto ad adesso. L’abbassamento del livello del Mar Morto significa, in sostanza, che tutti i livelli delle acque circostanti cercano di adattarsi e compensare la perdita. Quindi, l’acqua dolce scorre in maggiori quantità attraverso formazioni geologiche piene di sale e il sale si scioglie. Quando il sale si scioglie si creano delle lunghe grotte e quando il tetto di questa cavità sotterranee collassa, si creano i crateri. Questo è il meccanismo di base e in futuro ci troveremo davanti ad un aumento costante della loro profondità. Tutto questo fenomeno è iniziato trent’anni da: all’inizio i crateri erano profondi alcuni metri; oggi, invece, ne abbiamo di profondi anche decine di metri».
In questo scenario, la guerra dell’acqua ha un ruolo non indifferente. I fiumi utili alla Giordania sono condivisi con difficoltà tra i vicini: per molti anni Israele e Siria hanno deviato l’acqua del Giordano e dello Yarmuk a monte per il proprio uso. Da qui, un’eccessiva dipendenza di Amman dall’estrazione di acqua sotterranea dalle falde acquifere sotto la superficie terrestre, prosciugate a una velocità doppia rispetto a quella con cui possono essere ripristinate in natura. Attualmente, l’approvvigionamento idrico del Paese proviene per il 60 per cento del totale da queste falde, considerato che rifornirsi direttamente dai fiumi è difficile, in particolare dal Giordano, sotto il controllo di Israele, specie ora che gli accordi sullo scambio di acqua in favore di energia, siglati tra gli Stati nel trattato di pace 1994 e confermati alla conferenza sul clima di Sharm el Sheikh nel 2022, sono messi costantemente in questione dai giovani manifestanti del composito movimento pro-Palestina che spesso organizza sit-in di fronte alla sede del Ministero delle Risorse idriche. Le proteste sono scoppiate ad Amman quando il piano, mediato dagli Emirati Arabi Uniti e che avrebbe comportato l’invio di energia solare da parte della Giordania a Israele in cambio di acqua, è stato annunciato per la prima volta dopo la conferma dell’accordo. Ma è diventato materia di battaglia politica dal 7 ottobre 2023 perché sabotare l’accordo è un obiettivo del movimento di boicottaggio internazionale BDS.
I poveri non possono permettersi di acquistare acqua dai camion privati e hanno meno capacità di stoccaggio. Tutte le famiglie devono acquistare le proprie cisterne e, se una si danneggia, le conseguenze sono terribili: devono semplicemente rinunciare
Omar Salameh, portavoce del Ministero dell’acqua e dell’irrigazione, rende noto che il governo era ben consapevole anni fa dei pericoli derivanti dall’esaurimento delle falde acquifere. Ma «poiché la popolazione è cresciuta, in gran parte a causa delle ondate di rifugiati dalla Siria e da altri Paesi in conflitto, il governo è stato messo sotto pressione per soddisfare la domanda crescente», dice. Si stima che la popolazione della Giordania ora superi gli 11 milioni, rispetto agli 8 milioni di appena un decennio fa, comprese le persone registrate dalle Nazioni Unite come rifugiati.
Così, molti giordani si rivolgono alle autocisterne private. Ma i prezzi applicati da queste autocisterne, che sono onnipresenti nei quartieri più ricchi della capitale Amman, hanno raggiunto i nuovi massimi la scorsa estate. Edifici e case tengono le cisterne d’acqua sui tetti, che vengono rifornite dal governo e razionate durante la settimana. Le famiglie più ricche spesso hanno più cisterne, che possono anche riempire con l’acqua acquistata dai camion privati. La regola della buona borghesia di Amman, come ci rivela Miriam Haddaddin, «è di averne almeno tre di ampia capacità su ogni unità abitativa». Ma i più vulnerabili sono i più colpiti dalla carenza d’acqua. I poveri non possono permettersi di acquistare acqua dai camion privati e hanno meno capacità di stoccaggio. Tutte le famiglie devono acquistare le proprie cisterne e, se una si danneggia, le conseguenze sono terribili: devono semplicemente rinunciare. Ibtisam Yousef Abdelrahman, 55 anni, una palestinese che vive nel campo profughi di Wihdat nel Sud-Est di Amman, condivide un appartamento di due stanze con il marito, le figlie e due nipoti. Hanno ricevuto una nuova cisterna dall’UNICEF durante la pandemia per sostituirne una in acciaio arrugginito. Ma a metà settembre, la cisterna dell’UNICEF si è rotta e l’acqua è sgorgata in strada. «Ho iniziato a piangere, a correre per il quartiere», ha detto. «Abbiamo risolto il problema con le piogge durante l’inverno ma sono molto preoccupata per questa estate». Lo scorso settembre Ibtisam andava dai vicini con un secchio, implorandoli di donarle un po’ d’acqua. Gioco forza, per mesi la famiglia ha saltato le docce e ha rinunciato alle pulizie. Così a Ibtisam è rimasto il vizio di strillare ogni volta che qualcuno si lava le mani, ammonendo figli e marito di non sprecarne neanche una goccia La quantità media di acqua disponibile ogni anno per un residente della Giordania è ben al di sotto della soglia di “scarsità idrica assoluta” di 500 metri cubi stabilita dalle Nazioni Unite. Secondo le stime ufficiali del ministero giordano è di circa 80 metri cubi. Che soluzioni si prospettano? Qualcuna c’è ma è di difficile realizzazione. La desalinizzazione è una promettente àncora di salvezza per la Giordania, ma non avverrà in tempi rapidi. È in corso un progetto di desalinizzazione su larga scala nella città portuale di Aqaba sul Mar Rosso, ma ci vorranno anni. Esiste una potenziale soluzione più rapida: acquistare più acqua da Israele, pioniere nelle tecniche di desalinizzazione, ma le tensioni causate dalla guerra a Gaza non sono adesso ricucibili.
ANNI PERDUTI. Iyad Dahiyat, un ex funzionario del ministero dell’acqua, ha affermato che il portafoglio idrico in Giordania è importante tanto quanto l’esercito, date le minacce poste al Paese dal cambiamento climatico: uno studio recente ha previsto che gravi e potenzialmente destabilizzanti carenze idriche diventeranno comuni in Giordania entro il 2100, a meno che il Paese non apporti cambiamenti significativi alle sue forniture. Sandra Ruckstuhl, una ricercatrice americana con sede ad Amman e consulente speciale presso l’International Water Management Institute, sostiene che «il governo deve aumentare al più presto la fornitura di acqua alle comunità per limitare il malcontento», aumentando i prezzi dell’acqua in base al reddito familiare, per tenere conto del costo crescente della sua distribuzione a case e aziende. Ma molti giordani stanno già lottando contro la disoccupazione che avanza, contro i prezzi che aumentano e questa misura risulterebbe molto impopolare Peggio andrebbe per gli agricoltori. Un tempo il settore utilizzava circa il 70 percento dell’approvvigionamento idrico del Paese, sebbene contribuisse relativamente poco al prodotto interno lordo. L’utilizzo è sceso a circa il 50 percento ma molti agricoltori si concentrano ancora su colture ad alta intensità idrica che stanno diventando più difficili da sostenere.
Khairdin Shukri, 68 anni, è un proprietario agricolo in pensione e un consulente che da tempo cerca di incoraggiare altri agricoltori a pratiche ugualmente redditizie ma che richiedono meno acqua. Intervistato dal New York Times, sostiene che il problema dell’acqua in Giordania ruoti attorno a pratiche inefficienti, sprechi e mancanza di pianificazione. «È un Paese con un potenziale enorme ma è mal gestito». Per esempio, i datteri Medjool che possono tollerare la coltivazione in acqua salata ed essere comunque venduti a prezzi elevati, non sono ancora molto diffusi. Sarebbero un’ottima soluzione, se paragonata alle sempre più frequenti perdite di raccolti di ortaggi che richiedono più acqua e meno salata come melanzane, pomodori e peperoni, solitamente venduti dagli agricoltori alla catena di supermercati internazionale Carrefour. «Considerate le continue proteste contro questa catena filo-israeliana, che ha ormai perduto l’80% dei suoi clienti qui in Giordania – sottolinea Dana Hassan, l’influencer e imprenditrice più attiva in Giordania per il ricollocamento dei lavoratori licenziati dai supermercati Carrefour – meglio tornare ai datteri». Risparmiare acqua e cambiare le colture ha anche la finalità di non rischiare di perdere nessun raccolto. «Sarebbe ideale perché perdere il raccolto equivale a perdere almeno un anno della propria vita», chiosa il signor Shukri, scuotendo la testa.
(Illustrazione in copertina realizzata da Argo)