L’eco dell’infanzia per salvarsi dal tempo dei grandi: Bonaviri e la purezza di saper dire “Ghigò”
Il titolo del libro che l’autore di Mineo pubblicò nel 1990 è forse un grido da bambini. Una filastrocca di anziani vagabondi. Un nuovo modo di chiamare le cose. O forse, più probabilmente, tutto questo insieme, sullo sfondo di una storia siciliana fatta di emigranti, popolani saggi e miti immortali. Un album di diapositive familiari, della propria memoria, in cui ognuno di noi, in fondo, può trovare uno spazio
Prima o dopo, al linguaggio letterario tocca il compito di affondare. Nelle cose che non ci sono più, in quelle che sono andate smarrite, persino in quelle che devono ancora manifestare la loro esistenza. Se ne fa carico, come un bastimento che non teme di affrontare la bufera, che sogna di giungere ad una destinazione al di là di ogni riva. Avanti e indietro, inesorabilmente, l’anima come il mantice di una fisarmonica. Ripercorre magie, storie smezzate da stagioni guastate, filastrocche ingarbugliate di improbabili vagabondi, parole eternamente depositate sul fondo del tempo come fa il salgemma nelle profondità dalle grotte dalle quali il mare ha ritirato le sue carezze. È quasi un gioco, il moto che la letteratura tende a fare a ritroso: uno specchiarsi nell’infanzia, per ritrovarsi di colpo adulta e incapace di sognare, o per ritornare transitoriamente a quello stadio di ingenua pienezza. Per riacciuffare un segreto che non invecchia mai anche quando gli compaiono sul volto. Si scrive sempre, insomma, dell’infanzia. Della dimensione mitica in cui tutto è misteriosamente, consustanzialmente, ricordo ovattato e cristallino, vagheggiato e squadrato. Dove tutto riaffiora perché niente si disperde. È su questi sentieri che Giuseppe Bonaviri ha trascorso gran parte della sua vita. Scovando, rimestando, indagando. Fermandosi sui giorni che profumavano d’antico, immaginando quelli che lontanamente somigliavano al presente. Ha girato le piazze, costeggiato le campagne solitarie, porto l’orecchio alle saggezze popolari. E ne è sempre riemerso con candida raffinatezza. Esattamente come accade in Ghigò (1990), campionario di figure familiari archetipiche che vorrebbe somigliare ad un romanzo ma che forse, più semplicemente, è qualcosa che si avvicina ad un album di ancestrali cartoline. Perché in quelle diapositive d’inchiostro, nel andirivieni dei personaggi che vi sono ritratti, c’è tutta l’originaria bellezza delle voci e dei luoghi che lo hanno cresciuto.
Come la materna figura di Papé Casaccio, che si assume l’onere di raccontare in prima persona i sacrifici di una umile famiglia, la faticosa e luttuosa traversata alla volta di New York per sovvertire l’amarezza della propria sorte, il ritorno in Sicilia causato dalla malattia del padre. Che ricorda con timore le tempeste del mare, le inspiegabili rivolte della natura, il grido disperato di una compagna di nave, anch’ella siciliana e accompagnata da una capra, che intreccia sacro e profano, canto e preghiera: «Dopo aver succhiato del latte da una mammella della capra, con una strana parlata cominciò a dire: O dio delle acque, ora che lo mondo è perfetto e le nuvole abbandonano questo mare, vieni su, vieni, emergi, e riempi l’oceano del tuo soffio». O come il padre Nané, che, come all’epoca dell’uscita del libro aveva già sottolineato su La Repubblica Stefano Giovanardi, seziona la vita attraverso sentenze che si spingono fino alla metafisica. O come lo stesso Giuseppe, il quale, simbolicamente, avvolto da quel manto di enigmatico onirismo, crescendo sostituisce la madre come narratore della storia. Lo stesso Giuseppe che ci racconta di come Gianluigi avesse pronunziato la sua prima parola: ovvero “ghigò”. E di come a tutto, alla stregua di un nuovo Adamo investito dalla potenza di un nuovo declamare, aveva dato quel nome: ai passeri, all’acqua che scorre, alle stelle. Ghigò, come il giubilo emesso da un gruppo di bambini in un’antica visione di Papé. Antico come il mondo dal quale proviene e a cui eternamente ritorna. Come l’impronta di sillabe che diventano corpo. Come attimi da custodire prima che si perdano definitivamente nel cielo immenso della storia e della memoria.
È proprio dello scrittore, del suo sapersi porre in ascolto, comprendere, e trasmettere, che la vita è un grande disvelamento. Ma, al tempo stesso, una tumultuosa, irrefrenabile corrente che sfocia nell’oblio. Nel disincanto di ciò che infanzia non è. Non resta che la scrittura, una parola suadente e genuina, un passo di danza, la dolce disarmonia di un coro fanciullesco per fare in modo che quel momento arrivi il più tardi possibile.
(Foto in copertina: Noman Shahid | Unsplash)