L’illusione amorosa
come cura dell’anima:
affinità tra Verga e Tenco
«Vi ringrazio della vostra cara letterina che mi ha fatto bene nella grand’uggia di questi giorni. Ho avuto due notti di febbre ed altri guai oltre all’occhio gonfio. E figuratevi poi l’umore. Vorrei che il bene che vi voglio vi confortasse nei vostri momenti neri, come le vostre parole rischiarano il mio cattivo umore». Scriveva così, il 5 gennaio 1880, Giovanni Verga alla donna che più di ogni altra rapì il suo cuore, quella Paolina Greppi Lester che rappresentò il fulcro dei suoi pensieri amorosi fin dai primi incontri milanesi e la sua musa ispiratrice, a partire dalla novella Fantasticheria risalente allo stesso anno della lettera citata poco sopra. Sebbene figura preminente nell’immaginario verghiano, Paolina non fu che una tra le numerose donne il cui vissuto si intrecciò con quello dello scrittore catanese: tra queste, svettano la contessa Dina Castellazzi, anch’essa milanese, e Giselda Fojanesi, moglie dell’amico e poeta Mario Rapisardi con cui, in seguito a questa vicenda, nacque un celebre contenzioso. Eppure, a dispetto di tutte le tresche che lo videro protagonista, Verga non si sposò mai e fu accusato, da una certa linea critica successiva, di aver gettato fumo negli occhi delle proprie spasimanti e di coltivare più relazioni nello stesso momento. Fu davvero così? O si trattò di sentimenti realmente autentici e ben più complicati?
Certo, siamo nello stesso anno 1883, a cavallo tra novembre e dicembre, quando lo scrittore apostrofa la Fojanesi come «la donna, l’amica, la sorella, l’amante sognata» e dedica alla Greppi le seguenti parole: «Penso a voi oggi e mi ricordo dello stesso giorno che vi ero vicino l’anno scorso…». Un consumato latin lover, verrebbe da pensare, ma basta tornare al fatidico 1880, in ottobre, per trovare la chiave di volta del tutto, quando Verga si rivolge ancora a Paolina e ancora facendo riferimento al proprio umore:
«Grazie e proprio dal cuore. Non potete immaginare quanto piacere mi abbia fatto il vedere che pensate a me; non mi sento tanto bene e sono di un umoraccio nero. Il vostro biglietto mi ha fatto l’effetto che mi fa il vostro bel sorriso, di un raggio di sole».
Una spontaneità strabordante sembra avvolgere le righe di questa lettera, fugando ogni dubbio sull’autenticità di un amante che investiva gran parte delle sue forze nel seguire gli impulsi del cuore e che, nel corso degli anni, sperava in maniera struggente di rinnovarsi con altre relazioni, tutte puntualmente senza lieto fine. A differenza di quanto il periodo milanese possa far pensare, e in apparente contraddizione con la fitta selva di rapporti letterari che seppe costruire, Verga non amava raccontare di sé, incline com’era ad una pacificante solitudine, a mostrarsi schivo nei sorrisi accennati, alla protezione di un’intimità cui si aggrappava con forza. Basta, però, sfogliare la sua corrispondenza con le figure femminili cui fu più legato per trovare, come per magia, una persona disposta ad aprirsi, a mettere in mostra le sue fragilità più nascoste. Tutto questo con la forza di quell’amore da cui si sentiva pervaso e a cui, per quello che fu uno dei suoi più grandi rimpianti esistenziali, non fu mai in grado di approdare del tutto.
I problemi di salute e quelli economici, infatti, tormentarono Verga fino alla morte e gli impedirono di costruirsi la vita sentimentale che sognava. Un profilo, quello verghiano relativo all’amore, troppo affine per non essere accostato ad un’altra anima sofferente della nostra cultura, ovvero quella di Luigi Tenco, suicidatosi nei giorni del Festival di Sanremo del 1967. Risulta estremamente sorprendente mettere in paragone le frustrazioni dei due attraverso una commistione di lettere e canzoni, in particolare la lettera del 15 maggio 1882 che Verga inviò alla sua Paolina da Parigi e stralci di testo di Se potessi amore mio e Vedrai, vedrai:
Quando vedo un bel magazzino
delle cose eleganti che farebbero
bene per la mia amica civettuola,
vorrei avere i milioni di Montecristo
[…]
Nel leggere che siete malinconica, so che
tutta la mia affezione non può darvi la
metà di quel che avete perso
(Giovanni Verga)
Se potessi amore mio ti darei
tutto quel che vedo. Ma posso
darti solo quel che ho io e
purtroppo non è gran cosa
[…]
Mi fa disperare il pensiero di
te e di me che non do darti
di più
(Luigi Tenco)
Due compagni di spirito, due anime disperate, dunque, bisognose d’amore ma incapaci di conquistarlo. Le parole di Verga e Tenco non sono promesse, ma aspirazioni, confessioni di inadeguatezza, illusioni per se stessi, per curare, anche solo per lo spazio di una lettera o di una frase, un malessere eternamente compagno di vita. D’altronde, cantava Tenco: “Non so dirti come e quando, ma un bel giorno cambierà”.