L’Inglese che riscoprì l’anima di Vulcano
Industriale, filantropo, ma soprattutto geniale ed appassionato avventuriero. Fu questo e molto altro James Stevenson, la cui vita fu legata a doppio filo alla storia della splendida isola. Qui egli modernizzò l’estrazione dello zolfo e dell’allume, favorendo i commerci con il Regno Unito e si dilettò nella produzione del vino, sfruttando terreni fino ad allora incolti. Oggi, tra libri, antichi edifici e testimonianze degli anziani del posto, tutto parla ancora di lui
Un paesaggio lunare, circondato dal mare. Con il giallo dello zolfo vulcanico che si tuffa nel verde diamantino dell’acqua, in contrasto con il nero della sabbia lavica e il rosso ferroso delle rocce. Mentre i cristalli di allume e ossidiana impreziosiscono lo scenario, con il loro scintillio sotto il tocco del sole. Si presenta così, l’isola di Vulcano. Già dagli oblò dell’aliscafo, non appena si abbassa a filo d’acqua per entrare in porto. Accolto dalla maestosità del Gran Cratere, ancora attivo seppur quiescente dal 1891.
Tra le isole Eolie, Vulcano è la più affascinate. Ma paradossalmente è anche la meno conosciuta, sebbene sia la più vicina alla costa di Milazzo. La più facile da raggiungere, da quella terraferma – la Sicilia – che è isola a sua volta.
A pochi metri dal porto, dietro il monolite sulfureo che sovrasta l’area dei fanghi termali, un edificio dalle strane fattezze distrae lo sguardo. È il Castello dell’Inglese, o meglio, un’evoluzione architettonica di quella che fu la dimora di James Stevenson. Un industriale d’Oltremanica con la passione per la cultura, filantropo e benefattore dai numerosi interessi, soprattutto le scienze naturali e i viaggi, che nella seconda metà dell’Ottocento approdò a Vulcano. Terra di miti e leggende. Tra Eolo, re dei venti, ed Efesto, re del fuoco, che nel Gran Cratere si dice avesse la propria fucina, contendendosi l’isola il titolo di residenza divina, in antagonismo con la grande madre Etna. Mentre vanta, al contempo, il passaggio di Odisseo durante il suo viaggio verso Itaca. Approdato al grande faraglione della spiaggia di Ponente, faro naturale per i naviganti, con la sua forma a testa di cane, le cui orecchie al tramonto si trasformano nei profili di una donna e di un uomo in procinto di baciarsi.
Ha fascino, Vulcano. Che ha conosciuto una storia piena di vicissitudini, popolata nell’Ottocento da avventurieri, coatti ed esploratori. Tra questi, l’Inglese. Come lo soprannominarono gli abitanti dell’isola, ignari forse del fatto che Stevenson (1822-1903) fosse nato a Glasgow, in Scozia.
«Mio nonno fu un suo collaboratore» racconta Gustavo Conti, che sull’isola gialla c’è nato e cresciuto, e lì ha sempre vissuto e vive ancora a 79 anni. «Quando Stevenson andò via, a seguito dell’eruzione del 1888 che in tre anni distrusse quasi tutto, mio nonno fu uno dei tre compratori delle sue proprietà. Comprarono in maniera indivisa e dopo circa sette anni decisero di divedere tutto in tre parti, anche il Castello, che fu diviso verticalmente, per cui ognuno si dovette poi dotare della propria indipendenza».
Il Castello è ancora lì, dove è sempre stato. Con le sue torrette smerlate, frutto di interventi sovrapposti nel tempo. Dopo quelli fatti dallo stesso Inglese, perché «non fu lui a farlo costruire» precisa Conti. «Stevenson l’ha fatto modificare, probabilmente su un edificio preesistente e di età borbonica. Quando l’abbiamo restaurato a nostra volta, sono emerse le tracce di due vecchi grandi magazzini».
Mentre parla, a poca distanza dalle sabbie nere della spiaggia di Ponente, Conti ripercorre la storia dell’Inglese e della propria famiglia. E quindi la storia dell’isola. Magnetica, con la sua anima vulcanica. Misteriosa, con le sagome grottesche delle rocce della Valle dei Mostri a Vulcanello. Floreale, con gli oleandri, i gerani selvatici e i gigli di mare che scendono fino a Gelso. Fresca, con gli eucalipti e le querce di Vulcano Piano. E bollente, con le acque calde della spiaggia di Levante e i fanghi medicamentosi di Vulcano Porto. Dove lo zolfo è protagonista, con il suo giallo acceso e il suo odore caratteristico, materia prima molto ricercata alla fine dell’Ottocento.
A spingere James Stevenson fino alle isole Eolie fu proprio il commercio dello zolfo e dell’allume estratti a Vulcano e della pomice estratta nelle cave di Lipari. Un business con la madre patria molto vantaggioso. Al punto da convincere l’Inglese a comprare una vasta parte dell’isola “gialla” nel 1870, per 8.000 sterline, dagli eredi del generale borbonico Vito Nunziante “approfittando del nuovo clima politico post-garibaldino in Italia”. A raccontarlo è un pronipote, l’editore e giornalista Hew Stevenson, autore del libro “Jobs for the Boys – La storia di una famiglia nel periodo d’oro imperiale della Gran Bretagna” (2009). Tra queste pagine, il discendente ha ricostruito la storia di tutti i membri del suo enorme albero genealogico. Incluso il James Stevenson sedotto da Vulcano e detto “Croesus”, forse con riferimento a Creso, l’ultimo sovrano della Lidia che regnò dal 560 a.C. al 546 a.C., ricordato per la sua ricchezza e per la sua capacità di tramutare in oro tutto ciò che toccava. Come il più conosciuto Re Mida. E come l’Inglese.
«Questa copia del libro» racconta Gustavo Conti mentre sfoglia il bel volume illustrato «è stata regalata a mio nipote nel 2012 da un altro discendente di James Stevenson, venuto a Vulcano proprio in cerca delle tracce dell’antenato». Che rimase molto affascinato dalle suggestioni geologiche di Vulcano, in particolare dai getti gialli di zolfo e dai fanghi che ribollivano per i gas sulfurei, con cui Croesus forse trovò anche ristoro per i propri reumatismi. Come migliaia di turisti che continuano ad approdare sull’isola per beneficiare dei suoi luoghi termali, da qualche anno purtroppo interdetti al pubblico per ragioni amministrative.
Dopo aver acquistato buona parte dell’isola, James Stevenson rilanciò le attività estrattive a suo tempo implementate a Vulcano dal generale borbonico Nunziante, e da questi affidato ai coatti delle prigioni di Lipari. Stevenson, però, “portò un’ondata di modernità, migliorò i metodi estrattivi e incrementò i commerci navali con l’Inghilterra” secondo quanto scrive il pronipote. E “tentò anche di sfruttare il calore del vulcano, riparando un motore a vapore assemblato con parti spedite da Glasgow, ma il successo iniziale del suo esperimento si interruppe presto”.
Non si arrestò, invece, il successo dei suoi commerci. Tanto che “nel 1875 Croesus impiegava un centinaio di lavoratori italiani a Vulcano e le sue esportazioni di zolfo ebbero un nuovo boom”. Che spinse Stevenson a stabilirsi nella zona di Vulcano Porto, tra la Baia di Levante e quella di Ponente, in quella residenza che gli isolani stessi chiamarono il Castello dell’Inglese, riferendosi al suo “eccentrico proprietario britannico” come scrive il pronipote. Confermando, poi, che James Stevenson rimase a Vulcano fino al 3 agosto 1888, quando il Gran Cratere si risvegliò all’improvviso, devastando tutto e costringendo l’Inglese a scappare a bordo del suo yacht a vapore, il Fire Fay, ovvero la Fata del Fuoco. In omaggio, forse, alla passione di Stevenson per i vulcani.
Come ha ricostruito Hew Stevenson, infatti, oltre ad abbellire i dintorni del castello con oleandri, frutteti e alberi di fichi – e campi da tennis in erba – l’Inglese “piantò dodicimila viti di malvasia, da cui ricavava le bottiglie del suo vino Vulcano, che trasportava in Inghilterra e Scozia per i suoi amici e parenti”, che pare lo apprezzassero molto. Si deve a Gustavo Conti la riscoperta, sull’isola, della figura storica dell’Inglese e della sua presenza a Vulcano, nonché l’individuazione delle antiche cantine dove Stevenson produceva anche un suo vino. Che chiamò “Vulcano”, ovviamente.
Fu James Stevenson, infatti, a «mettere in produzione questi terreni fini ad allora lasciati incolti» chiosa Gustavo Conti «perché ai Borboni non interessava andare a metterli in coltivazione». E fu sempre lui a scoprire, così, la vocazione agricola dell’isola e la fertilità del terreno, arricchito proprio dai minerali del vulcano. Compresa la sabbia nera, dove oggi crescono nuovamente filari di viti che scendono a perdita d’occhio verso il mare, producendo ottimi vini e ottima malvasia. Per mano di nuovi imprenditori, che hanno ripreso la tradizione ottocentesca della viticoltura implementata dall’Inglese, la cui aurea si sente ancora aleggiare tra gli scenari mozzafiato dell’isola. Al punto che, tra le barche a vela e gli yacht che solcano i mari dell’arcipelago, nei tramonti incantati in cui ci si immerge dal belvedere di Baia Fenicia o dalla Baia di Ponente, tra le sagome dei faraglioni di Lipari e di Vulcano e quelle di Filicudi e Alicudi, a volte può sembrare ancora di vedere passare l’Inglese, a bordo del suo elegante Fire Fay. Tra fuoco e fate. Leggende e realtà.
(foto di copertina: generata con IA Adobe Firefly)