Sono trascorsi quasi vent’anni da quando papa Giovanni Paolo II, al termine dello storico discorso a braccio pronunciato nella Valle dei Templi di Agrigento, gridò ai mafiosi «Convertitevi!». Quel giorno, un dettaglio che sono in pochi a ricordare, il Santo Padre aveva incontrato i genitori del giudice Rosario Livatino. Che non si sia trattato di una semplice coincidenza ma che, invece, l’omicidio del magistrato abbia contribuito a segnare un punto di svolta nella coscienza della Chiesa e nel suo atteggiamento rispetto al fenomeno mafioso è convinto Salvatore Taormina, tra i curatori di un percorso espositivo dedicato alla sua figura al Meeting per l’Amicizia tra i popoli, svoltosi a Rimini dal 20 al 25 agosto.  «L’aggressione rivolta a personalità dichiaratamente cristiane, segnate profondamente nel loro operare professionale e nella loro esperienza umana dalla fede –  spiega –  pose la necessità e l’urgenza di un ricorso esplicito a categorie e parole specificamente cristiane di fronte alla mafia». A cura della LAF (Libera Associazione Forense), del Centro Studi Rosario Livatino e del Centro Culturale il Sentiero di Palermo, sgombrando il campo da tante riduzioni, il percorso di pannelli e videointerviste dal titolo Sub tutela Dei ha offerto ad oltre 10.000 visitatori l’occasione di incontrare l’umanità di chi ha fatto compiere alla Chiesa intera un passo decisivo nel suo peculiare contributo al contrasto del fenomeno mafioso.

Il “Santocchio”, lo chiamavano dispregiativamente gli affiliati alla Stidda di Canicattì i cui sicari lo inseguirono oltre il guardrail della SS 640 che da Caltanissetta conduce ad Agrigento per ucciderlo, la mattina del 21 settembre 1990. “Il giudice ragazzino” lo definirono i media all’indomani del suo assassinio, affibbiandogli l’etichetta di un’infelice espressione dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale chiamò “giudici ragazzini” una serie di magistrati impegnati a combattere la mafia, contribuendo quasi a derubricarne l’eroismo a mera inesperienza.

In realtà Rosario Livatino, “ragazzino” non lo era affatto. Il giudice muore a pochi giorni dal suo trentottesimo compleanno, dopo 12 anni di servizio in magistratura, avendo dato prova – documentano i curatori della mostra – non solo di qualità umane e professionali per molti versi uniche, ma anche di una capacità di coordinamento investigativo tra procure pionieristico, di individuazione di reati edilizi e contro l’ambiente come aspetti affatto residuali degli interessi mafiosi e di ingegno nell’ideazione di procedure di sequestro e confisca dei beni ai mafiosi quando ancora non se ne parla.

La novità, però, a ben guardare non è tanto, o solo, nel sacrificio ultimo, ma nell’unità tra fede e vita che egli vive. In occasione del convegno Fede e diritto, svoltosi nel 1986 presso l’Istituto Suore Vocazioniste di Canicattì, così Livatino parlava del proprio mestiere: «Il compito del magistrato è scegliere. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto. Perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto diretto per tramite dell’amore verso la persona giudicata». Amore, dunque, sia che si tratti di infliggere una giusta pena al reo, sia che si tratti di presentare di persona un ordine immediato di scarcerazione, la mattina di un 15 agosto, perché un uomo non trascorra un minuto in più privato della sua libertà. Una figura di tutt’altra statura rispetto a quella proposta da quanti, ancora oggi, continuano ad attribuirgli erroneamente (dell’affermazione non c’è traccia nei suoi diari) la famosa frase che avrebbe pronunciato all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Al contrario – e il percorso espositivo che prossimamente farà tappa nelle scuole e nei tribunali italiani e all’estero lo mette bene in luce – la dimensione della fede personale e l’impegno istituzionale  vennero vissuti da Livatino dentro una unità che non lascia spazio ad alcun dualismo. Il 3 ottobre del 1986 nel giorno del suo compleanno, così il magistrato di Canicattì annota sul suo diario: «Ho 34 anni. Invoco la benevolenza divina su quelli che mi restano». Rosario Livatino sembra abbracciare coscientemente, religiosamente, un inevitabile destino.

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