Lord Byron e la Sicilia: cuore e tormento al chiaro di luna

Il temerario e sregolato poeta britannico amava profondamente l’Italia, di cui fu spesso ospite. Nel 1809, una delle sue prime tappe fu proprio l’isola: approdò a Girgenti, dove, sotto un cielo che sapeva di poesia, gli fu concesso di fare una visita notturna alla Valle dei Templi. Un’esperienza che mai dimenticò e che, in maniera sapientemente celata, è rimasta nei suoi versi. E in quelli di una grande intellettuale siciliana che sulle vicende di quell’eroe tanto controverso fantasticò per tutta la vita

Anche il cuore più furioso, più palpitante, di tanto in tanto ha bisogno di posarsi. Di apporre con delicatezza, sulle ferite che lo tormentano da tempo, il balsamo lenitivo della poesia, della melodia, del pensiero che annega tra i silenzi della sera. Scruta sé stesso, indaga con ardore il proprio insopprimibile sentire e poi si deposita, come sabbia cullata dal vento, sul fondo della coscienza. È una ricerca inconscia, il più delle volte. Il risultato inaspettato – o sottovalutato – di un turbinoso e disperato girovagare, il peso della consuetudine che si tramuta in un attimo nell’incanto della meraviglia. Deve aver avuto questi connotati l’approdo in Sicilia di uno degli eroi romantici per antonomasia, sul cui nome, sulle cui sregolate e temerarie imprese, fioriscono tuttora acrobatici omaggi: quel Lord Byron che perse la vita sostenendo sul campo di battaglia gli ellenici nella loro lotta per l’indipendenza dall’Impero Ottomano e la cui presenza nell’isola è stata precisamente documentata soltanto di recente. Benché fosse già noto che il poeta britannico avesse visitato il nostro Paese nel 1816 – e ne fosse rimasto piacevolmente colpito per via delle splendide antiche vestigia di cui è custode – il suo legame con l’isola era rimasto avvolto in una cappa di incertezza, spazzata via dagli studi del giornalista Angelo Palillo, che certificano il suo sbarco nel 1809 nell’allora Girgenti. Ma non è solo, o tanto, la precocità del suo apparire a destare la maggiore suggestione. Quanto più il senso profondo di quella visita. Le circostanze del suo svolgimento, la rude dolcezza che la nostra terra seppe infondere nel suo animo ruggente, le tracce selvagge e raffinate che rimasero sparse nei suoi versi. E perfino l’impronta che quel cammino così decadente, così sublime e pittoresco lasciò nell’immaginario di altri appassionati intellettuali siciliani.

Fu una semplice locanda a fregiarsi del vanto di averlo ospitato. Lui, nobile signore avvezzo agli agi della sua condizione, era partito alla volta del classico Grand Tour con l’idea di non risparmiarsi. Di immergere in quei luoghi l’interezza del proprio essere. Ali Pascià – storico reggente di Giannina eliminato dai Turchi e personaggio reso celebre da Dumas ne Il Conte di Montecristo – lo avrebbe atteso al termine del viaggio. Ma prima, ad attenderlo, vi era una sorta di appuntamento col destino. Uno scalo forse non previsto, o non preventivato alla partenza. Una tappa intermedia, tra la Spagna e Malta. Quella Sicilia che altri avevano tanto vagheggiato e verso cui il poeta si ritrovò sospinto. Sulla soglia di un’esperienza che non avrebbe mai dimenticato. È uno dei suoi sodali, John Cam Hobhouse, a raccontarlo: «Avvistammo con un cannocchiale le rovine di un tempio, le colonne e, sotto la città, l’antica Agrigentum su una collina. Sbarcammo nel porto sul molo, verso le sette e trenta. A nessuno tranne per Byron e me, obstantibus omnibus, fu permesso di scendere dalla barca». Quasi come se la città lo stesse attendendo da tempo. Il piede sulla terraferma. La richiesta di indicazioni ad un Capitano impettito ma cordiale. Un mezzo per spostarsi. Ed ecco, infine, lo scenario da sogno. Uno scorcio che sembrava poter esistere soltanto nell’eccentricità di una rima o nella fervida immaginazione di un biografo. E che invece, monumentale, puro, gli si parava dinanzi agli occhi: la Valle dei Templi fasciata dall’abbraccio della luce lunare. Poi il ritorno. E la partenza, verso i territori greco-albanesi che, a distanza di quindici anni, gli si sarebbero rivelati, fatali.

Di quel viaggio crepuscolare non rimase, apparentemente, nessun indizio letterario. Ma negli anni successivi, tra il 1812 e il 1818, le memorie di quell’erratico trascorso Mediterraneo presero la forma di un singolare poema, ovvero Il pellegrinaggio del giovane Aroldo. Una narrazione in versi. Una lirica che lambisce il romanzo. Una confessione nella quale Girgenti non viene menzionata. Ma che, in qualche modo, si mostra come una sorta di epifania:

«C’è un piacere nei boschi senza sentieri,
c’è un rapimento sulla spiaggia solitaria,
c’è un mondo dove nessuno penetra,
vicino al mare profondo, e musica nel mondo:
oh, non amar l’uomo di meno, ma più la Natura,
mercé questi nostri colloqui,
dai quali io rubo tutto quanto posso essere,
o sono stato prima,
per mescolarmi con l’universo,
e provare ciò che non riesco mai a esprimere,
e tuttavia non riesco a celare».

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità
a migliaia le navi ti percorrono invano;

l’uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
ma il suo potere ha termine sulle coste,
sulla distesa marina
i naufragi sono tutti opera tua,
è l’uomo da te vinto,
simile ad una goccia di pioggia,
s’inabissa con un gorgoglio lamentoso,
senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.
Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
la loro rovina ridusse i regni in deserti;
non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde
».

Sarebbe poi stata la volta di Venezia, Roma, Ferrara. Sarebbe poi fuggito da scandali e amori controversi. Si sarebbe inimicato mezza Europa: nobili, tiranni, colleghi. E sarebbe scomparso, tenebroso fino alla fine, tra i candidi archi di Missolungi, la città dell’aldilà. Immaginandolo negli istanti finali della sua vita, la nostra Giuseppina Turrisi Colonna, che ne coltivò per tutta la vita il mito, scrisse Ultimo canto di Lord Byron, nel quale il poeta, accomiatandosi, ripensa al suo amore per la Grecia e per l’Italia, il cui punto di congiunzione era proprio la Sicilia:

«De’ miei verd’anni ecco fornito il corso;

Non ha più fiori amor, non ha più frutto;

Deh che mi resta? col fatal rimorso

Lagrime e lutto!

Come vulcano solitario splende

Nell’alma il foco, e mi consuma, e spira;

Non altra fiamma che l’estrema incende

Funerea pira!».

Poteva forse esistere giaciglio migliore per il cuore di un poeta?

(Foto in copertina creata con Bing Image Creator)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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