“Morte dell’Inquisitore”: quando giustizia e vendetta finiscono pericolosamente per somigliarsi
In questo saggio dai contorni di romanzo storico, Sciascia ripercorre la singolare vicenda del compaesano frate Diego La Matina, unico prigioniero dell’inquisizione siciliana ad essere riuscito ad uccidere il proprio inquisitore prima di essere condannato al rogo. In questa storia fatta di intrighi, di accordi occulti e di smascheramento degli scopi ipocriti del potere, ad emergere è la domanda: davvero abbiamo creato delle società dove non esiste alternativa all’azione dei giustizieri?
Dici vendetta e, letterariamente, la memoria non può che correre a un tavolino battuto dal sole di Marsiglia, dove tre uomini, ognuno con le proprie losche intenzioni, stanno per condannare ad un’ingiusta sorte un giovane brillante e magnanimo. Dici vendetta e pensi al Conte di Montecristo, alla disperazione di Edmond Dantès, alla sua tenacia nel riparare con ogni mezzo all’indicibile torto subito, senza mai tuttavia perdere di vista l’altissima dimensione della pietà. Pensi agli intrighi, alle mascherate, ai guanti gettati con la furia di chi non può rinunciare al proprio onore, alle dame e ai galantuomini di un tempo che fu. Pensi, insomma, a qualcosa che di più letterario non si può. Ad una molla narrativa che, in un modo o nell’altro, sa sempre come affrancare i propri personaggi dall’indifferenza. Eppure la vendetta, il senso distorto di un affronto a cui porre rimedio, è ben più che un semplice espediente da scrittore navigato. È, tristemente, una categoria dell’umano, un istinto senza requie che talvolta, per giustificare sé stesso, indossa inopinatamente i panni della giustizia. Sono storie da libro, certo, le grandi ed iconiche rivalse: acrobatiche, strabilianti, persino improbabili. Celate sotto un elmo come il sanguigno sguardo di Achille ai piedi delle mura di Troia. Assalite magari da atroci dubbi, come succede ad Amleto. Intrise di un dispotico e beffardo patriottismo, come quello di V. Ma non basta tale tendenza al fantastico a fare della vendetta un mero topos libresco. Perché essa si annida anche là dove la storia le ha dato occasione di crescere. Per esempio nella Sicilia di metà ‘600, tra i rigidi paletti del tribunale dell’Inquisizione. A raccontarcelo è, naturalmente, Leonardo Sciascia nel suo Morte dell’Inquisitore (1964), saggio dai contorni che sfiorano il romanzo storico ispirato alla conturbante figura dell’agostiniano Diego La Matina, anch’egli racalmutese. Nonostante il finale tragico della sua vicenda esistenziale, l’autore arrivò a reputarlo come «un uomo che tenne alta la dignità dell’uomo». Semplicemente perché era riuscito là dove tutti gli altri avevano fallito: nella vendetta, appunto.
Per quasi tutta la sua vita, infatti, il frate siciliano aveva dovuto fare i conti con l’oppressiva rigidezza del Sant’Uffizio: blasfemia, iconoclastia, eresia, cospirazione erano stati solo alcuni dei capi d’accusa da cui erano scaturita una detenzione carceraria di ben 13 anni. Mai, tuttavia, sottolinea Sciascia, La Matina aveva considerato l’idea di abiurare non soltanto il proprio credo, quanto, piuttosto, la sua ferma, incrollabile indipendenza morale ed intellettuale. Nemmeno quando a lui si parò davanti il suo inquisitore in persona, ovvero Juan Lopez de Cisneros. Un incontro che, anzi, finì nel sangue: durante un colloquio privato, al quale il frate si presentò con le catene spezzate, questi ferì mortalmente l’aguzzino. La naturale condanna fu quella del rogo, eseguito nel 1658, a poco più di mezzo secolo da un’altra simbolica prassi barbarica avvenuta a Roma, ovvero l’uccisione del filosofo Giordano Bruno. Secondo quanto riporta Sciascia, il religioso fu l’unico prigioniero siciliano capace di uccidere il proprio inquisitore. Ma questo aspetto, benché da solo già abbastanza rilevante per collocare La Matina nell’Olimpo delle figure singolare, non è sufficiente per spiegare interamente l’interesse suscitato in Sciascia da questa vicenda tutta siciliana. C’è qualcosa di più, un torbido ma affascinante baluginio di umano sentimento a fare in modo che lo scrittore parteggi per lo sfortunato giustiziere. È forse la sua rivoluzionaria intransigenza, la disperata affermazione di un principio libertario per il quale varrebbe la pena persino macchiarsi della colpa più grande. La Matina, eroe a suo modo che decide di sacrificare la sua integrità, è anche estremamente solo. Abbandonato a una giustizia che pretende di essere rispettata senza mai offrire in cambio la medesima trasparenza. Gettato nel tritacarne di un potere che si accanisce subdolamente sui suoi oppositori e che – non può fare a meno di notare Sciascia – somiglia in tutto e per tutto, salvo che nell’aspetto, a quello con cui noi contemporanei facciamo i conti. Fra Diego è, in fondo, l’immagine di un intero secolo fatto di tacita complicità tra sacro e profano, tra potere religioso e politico-economico, ma anche delle sue propaggini. Lo specchio di una lotta inesauribile che crea arbitrariamente giudici e martiri, uomini retti e uomini iniqui. Che, invece, finiscono per confondersi come nell’acqua torbida di uno stagno.
Ed ecco che tra i suoi cerchi concentrici, là dove la storia si è dovuta fermare per ricondurre all’ordine prestabilito questa bislaccheria, la letteratura, pagando questa volta lei un tributo alla realtà, può ricostruire la carnalità di quei sospiri. Congedandoci infine col dubbio: si può definire giustizia l’accanimento contro ciò che si ritrae dal proprio controllo? E davvero la vendetta può assurgere ad un suo effettivo surrogato senza generare in noi una qualche sorta di repulsione? «Uomini di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio. Ed ho scritto di fra Diego come di uno di loro: eretici non di fronte alla religione (che a loro modo osservavano o non osservavano) ma di fronte alla vita».
In copertina: “Morte dell’inquisitore”, illustrazione di Renato Guttuso
