Quando in una competizione sportiva due squadre o due atleti hanno un livello molto simile e non riescono a prevalere l’uno sull’altro, ci sono delle fasi del gioco in cui qualsiasi tentativo di trionfo sembra andare in fumo.

È quello il momento in cui un siciliano esclamerebbe allora: «Nìuru ccu nìuru nun tingi!», ovvero «Il nero non tinge il nero»: un’espressione evocativa tratta dal mondo dei tessuti e dei lavaggi, o forse ispirata alla vernice del medesimo colore, che pur avendo un’origine ancora poco sondata resta chiaro ed efficace nell’utilizzo.

Nel momento in cui si fa ricorso al proverbio, infatti, risulta evidente che si stanno paragonando fra loro le qualità o le capacità di due soggetti diversi, con l’intenzione di sottolinearne la parità di talento e soprattutto di performance.

Ecco perché, oltre a essere utilizzata di fronte a una partita di calcio, di tennis o di pallavolo, la locuzione è diffusa nella Trinacria anche in ambito scolastico o lavorativo, accademico o familiare, portando con sé un’ulteriore sfumatura di significato che è interessante menzionare.

La realtà ci pone infatti quasi sempre davanti a un solo e unico vincitore, mentre l’antica saggezza sicula ci suggerisce tramite il sintagma Nìuru ccu nìuru nun tingi di ipotizzare un finale diverso, nel quale le due parti in causa riconoscono reciprocamente il loro valore e decidono di optare per un ex aequo, metaforico o letterale che sia.

In altre parole, ci troviamo di fronte a un invito al compromesso, a una proposta di accordo fra pari, che anziché incoraggiare la competizione smodata prende atto dei punti di forza altrui e dei punti di debolezza propri, portando due fazioni all’apparenza opposte ad accettare una condizione di pari merito con il sorriso sulle labbra.

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