Ogni giorno mi sveglio dentro l’11 settembre

Soltanto oggi, quando il numero di morti negli USA ha superato quello dell’11 settembre, ho realizzato l’impatto traumatico che il COVID-19 sta avendo su di me: lo stress accumulato nel vedere il personale sanitario soffrire, gli scienziati arrovellarsi e i politici annaspare, hanno fatto sì che perdessi il controllo senza ragione. Oggi il dolore dell’incertezza è ritornato. L’11 settembre 2001 mi trovavo al World Trade Center, ho sentito il calore dell’impatto degli aerei, visto la gente perdere la vita mentre ero sovrastato dai detriti delle torri che mi cadevano a fianco. Sono sopravvissuto per miracolo, perché un passo avanti o indietro mi sarebbe costato la vita. In quel momento ho sentito tutto il peso della mia mortalità come risultato della mia stupida decisione di rimanere e raccontare… per cosa? Per una storia.

È l’11 set­tem­bre al ral­len­ta­to­re, ri­pe­tu­to ogni gior­no per tut­ti: una mat­ti­na­ta che ri­vi­vre­mo per un anno o due, un per­fi­do “Ri­co­min­cio da capo”

Oggi quel senso di mortalità è quotidiano, nella paura che cose ordinarie, come andare al supermercato, toccare una superficie o grattarsi il naso, possano mettere a repentaglio noi stessi, le nostre famiglie, le nostre comunità. È l’11 settembre al rallentatore, ripetuto ogni giorno per tutti: una mattinata che rivivremo per un anno o due, un perfido “Ricomincio da capo”.

Una delle mie ultime volte a Manhattan prima del lockdown è stata al Bellevue Hospital, dove sono stato visitato per il World Trade Center Health Program. Dopo molti anni di rifiuto ho accettato che il mio corpo e la mia memoria venissero pungolati. Ho pensato che sarebbe stato terapeutico. È stato più che altro un processo burocratico: ho avuto riconosciuto il diritto ai trattamenti – che in realtà non esistono – dei miei due cancri (alla prostata e alla tiroide, entrambi ‘leggeri’ e soggetti alla copertura sanitaria del programma), per la mia condizione cardiaca (fibrillazione atriale, non coperta) e per i problemi respiratori (apnea del sonno, mi procurerò un apparecchio). Inoltre – qui la mia sorpresa – mi è stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress. Davvero? Ma io sto bene, benissimo. Così è stato per 19 anni, in cui non ho solo convissuto con quel trauma ma, sempre cosciente del mio privilegio, ho vissuto pienamente, fortunato di avere la mia famiglia, la mia casa e il mio lavoro. E ora, 19 anni dopo, arriva il COVID-19 (come se i numeri fossero consapevoli della propria ironia) a ricordarmi nuovamente della mia fragilità, della mia mortalità.

La no­stra cit­tà è una po­ten­za: ma ec­co­la nuo­va­men­te sot­to at­tac­co, ab­bat­tu­ta e am­mu­to­li­ta. Stavolta da un mero virus contro il quale noi – la nazione – eravamo impreparati, criminalmente

Sono ancora fortunato e lo so bene. Vivo in campagna con tutta la distanza sociale necessaria. Ho una famiglia meravigliosa e grazie a mia moglie sono a casa al sicuro. Ho un lavoro ricco di soddisfazioni e mi confronto con colleghi docenti che non vogliono semplicemente aiutare i nostri studenti a superare questa crisi, ma insegnare loro ad essere più saggi e resilienti. Grazie a internet mantengo lavoro e stipendio, e resto connesso con il mondo. Sono ancora un privilegiato.
Ogni giorno, quando guardo i grafici dei deceduti e i tassi di mortalità, penso che ancora non riusciamo a vedere l’umanità dietro quei numeri. Il nostro cosiddetto presidente ritiene che perdere 100 o 200mila persone sia sinonimo di un lavoro ben fatto e meritevole di plauso. Le sue bandiere non sono a mezz’asta: mai. I notiziari stanno iniziando a riempirsi con i nomi dei caduti, le storie delle loro vite sepolte sotto le curve dei grafici. Tra i primi che abbiamo perduto molti sono stati operatori sanitari, morti senza motivo a causa delle minimizzazioni del nostro governo incapace. Solo Dio sa come facciano dottori e infermieri ad andare avanti. Dio li benedica.

Io non sono nella condizione di chi sta fronteggiando la morte. E nessuno di noi dovrà mai esserlo, a patto di fare attenzione: stare in casa, non respirare l’aria sbagliata o toccare qualcosa e stropicciarsi gli occhi. Perlomeno fino a quando avremo un vaccino. Sia benedetta la scienza, nella quale mi rifugio. È qui che trovo la speranza.Tuttavia siamo vulnerabili. Lo siamo stati e lo saremo sempre, ma la maggior parte delle volte, riusciamo a ignorarlo. Soprattutto noi newyorkesi. La nostra città è una potenza: il centro del fottuto universo, come mi piace dire agli studenti e ai visitatori, una fortezza di spirito e volontà, di intelligenza e abnegazione. Ma eccola nuovamente sotto attacco, abbattuta e ammutolita. Stavolta da un mero virus contro il quale noi – la nazione – eravamo impreparati, criminalmente. Così finisco preda della mia rabbia.

Non riesco a guardarlo in televisione ogni fottuta notte: quella montagna di ego che sfrutta la vulnerabilità e la sofferenza sputando falsità, odio e ignoranza per alimentare il suo culto

Non riesco a guardarlo in televisione ogni fottuta notte: quella montagna di ego e fragilità inconsapevole che sfrutta la vulnerabilità, la sofferenza e i suoi cittadini sputando falsità, odio e ignoranza per alimentare il suo culto. È troppo da sopportare. Mi vergogno del settore cui ho dedicato la mia vita, quello dei media, per avergli offerto un palcoscenico, per non aver smascherato le sue bugie prima che si diffondessero come un virus, per non aver diagnosticato la malattia che lui è. Tutto ciò mi deprime. Sono consapevole che scrivere queste righe sia un po’ una forma di autocompiacimento. Non condividevo le emozioni in questo modo da un ormai distante anniversario dell’11 settembre. Pensavo di essere guarito o almeno in via di guarigione, ma ora la mia debolezza è tornata. Le emozioni sono nude.
Ho detto allo psichiatra del Bellevue Hospital (una frase che uso senza ironia) che ho visto pochi effetti duraturi dell’11 settembre sulla mia psiche. Da allora ho sviluppato una paura dei ponti e ce ne sono molti che non attraverserei per nessun motivo. Sento che le mie emozioni possono scatenarsi nei momenti più sciocchi, ad esempio un colpo di scena gratuito in una serie TV o anche una dannata pubblicità possono mettere allo scoperto la mia parte più vulnerabile. Di solito non sono problemi troppo difficili da tenere a bada. Mi basta trovare un tunnel o un ponte più breve da percorrere e per liberare il mio cuore dai tranelli emotivi della narrazione scuoto la testa. Oggi tutto ciò è più difficile.

Condivido la mia fragilità nell’ipotesi che un lettore si senta come me: vulnerabile ma fortunato, preoccupato ma speranzoso. Incerto ma non per questo solo

Le emozioni divampano di nuovo. Non le chiamerei paura, piuttosto apprensione, preoccupazione, ansia, rabbia, stress ed empatia per coloro che, innumerevoli e senza nomi, ci hanno lasciato troppo presto. Ecco. Diciannove anni fa, quando in seguito a quell’evento realizzai il mio blog, trovai conforto nell’aprirmi agli altri e scoprii di non essere solo. Fu proprio quel gesto – avere un contatto, qui in rete, con altre persone – a cambiare la mia prospettiva sul giornalismo, i media e la società. Dopo un’attenta analisi, ho capito che avrei dovuto dedicare la mia vita e la mia professione non a scrivere storie bensì all’ascolto e al dialogo; questo è ciò in cui credo oggi. E che mi ha dato una nuova prospettiva lavorativa come insegnante. Così, in questo momento, più che raccontare la mia storia sto condividendo la mia fragilità nell’ipotesi che un lettore si senta come me: vulnerabile ma fortunato, preoccupato ma speranzoso. Incerto ma non per questo solo.

Traduzione Francesco Raciti

L’articolo in lingua originale è disponibile qui

About Author /

Jeff Jarvis è professore alla Newmark School of Journalism presso la City University di New York e uno dei più influenti giornalisti americani. Gli articoli qui pubblicati sono traduzioni di post apparsi originariamente sul suo blog BuzzMachine

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