Pasolini, una Millecento e il respiro della Sicilia: cronaca di un viaggio di cuore

Nel 1959 la rivista “Successo” commissiona al grande scrittore un diario estivo dalle località balneari più note d’Italia. L’isola non è solo la tappa più a Sud, ma quella in cui il senso di meraviglia e di scoperta lo travolgono. Negli anni del boom economico, dei media sempre più pervasivi e del conformismo, un’umanità autentica gli appare nelle città isolane. In tutte le loro affascinanti, inconciliabili contraddizioni. Che sembrano ancora quelle di oggi

L’essenza del viaggio, a volte, è respirare la polvere. Lasciare che il vento accarezzi le guance senza dargli il tempo di posarvisi. Affidare ad un finestrino in movimento lo sguardo fugace sulle forme che cambiano, che si sovrappongono, che raccontano storie silenziose. È ritagliarsi un angolo, una visuale, un cantuccio di solitudine da cui scrutare il brulicare della vita. Partecipare al destino degli altri senza nome e senza tempo, pur con la consapevolezza di doverli presto lasciare. Chi viaggia davvero non fa che battere le orme dell’ignoto, le strade senza orizzonte che si diramano verso piccole piazze, vicoli abbandonati, ombre proiettate su un muro scalcinato. Sono i sentieri che corrono paralleli alle folle e alla mondanità, a quell’aria di festa che istintivamente ti attrae ma al tempo stessi ti respinge nostalgicamente. Gli sterrati che si affacciano sulle spiagge come bambini dall’irrefrenabile curiosità. Quelli che sanno di passato perché sembrano non essere mai cambiati. Popolati dagli stessi fantasmi che ciclicamente riappaiono ai loro bordi, carichi di sogni e di fatica. Le arterie scoscese, insomma: i saliscendi di salsedine e sabbia, dove realtà e finzione si svelano l’un’altra. E dove gli uomini, per un attimo, liberi dalla maledizione di Babele, sembrano parlare tutti la stessa lingua. Sono le strade che Pier Paolo Pasolini, nel 1959, percorse da consumato avventuriero a bordo di una Fiat Millecento. Quando la rivista Successo gli commissionò un reportage dalle località balneari e costiere più celebri d’Italia. Erano gli anni del boom economico, della scoperta della vacanza come dimensione di autoaffermazione, come status symbol di un popolo che stava faticosamente iniziando a lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra. Gli anni in cui il progresso, l’immaginario futuristico di una tecnologia senza limiti, stavano per irrompere in un Paese spaccato tra Nord e Sud, in gran parte ancora aggrappato alle sue certezze familiari e bucoliche. Quel viaggio, reso tremendamente suggestivo anche dagli scatti del fotografo Paolo di Paolo che lo aveva accompagnato, condusse Pasolini in Sicilia. Tappa obbligata e culminante di un itinerario che era partito da Ventimiglia e aveva poi sfiorato, tra le altre, La Spezia, Fregene, Santa Marinella, Ostia, Ischia, Amalfi, Palmi. Chiusura ideale di un cerchio in cui lo scrittore nato a Bologna ritrovò molto di sé stesso e della singolarità poetica che lo contraddistinse. In cui l’isola gli apparve in tutta le sue affascinanti, inconciliabili, identitarie contraddizioni.

Un titolo suggestivo venne dato a quel reportage pubblicato a puntate e poi raccolto in volume: La lunga strada di sabbia. Fu, per Pasolini, una sequenza di sorprese. Un’immersione in una società che si apprestava a cambiare volto, a vendere l’anima ai media, alla pubblicità, al conformismo sfrenato. Sentiva il richiamo di una certa autenticità, Pasolini, nelle periferie che incontravano la sua penna. Nel fatalismo solido come una roccia dei siciliani. Percepiva precarietà, ma anche un incrollabile spirito di adattamento. «Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta – scrive spostandosi da Messina a Siracusa, in un estratto citato da Luigi Sanlorenzo – queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire». In mezzo c’è Catania con il suo mare avvolgente, la sorprendente Lentini in cui, dopo una breve chiacchierata, tutti sembrano già conoscerlo e volerlo bene «perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro». E c’è ancora qualcosa più a Sud da raggiungere. La vivacità di Pachino e poi Capo Passero, fino a Porto Palo. Ai confini della sua più fervida immaginazione: «La gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce. E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India, con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: “Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama? Isola di Porto Palo!” mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia».

Sarebbe tornato spesso, Pasolini, nella sua amata Sicilia. Per le riprese di alcune delle sue più celebri pellicole – tra cui Il Vangelo secondo Matteo – e per occuparsi di teatro. L’aveva incisa sul proprio cuore. Era arrivato persino a scrivere, nel bel mezzo del suo diario estivo in giro per l’Italia: «Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, ma di gioia». Ma poi morì, nel 1975, tutt’altro che di gioia. Assassinato all’idroscalo di Ostia. Gettato nella polvere che aveva calcato e respirato per tutta la vita. Lì dove, con un pallone tra i piedi o con un volante in mano, aveva sempre voluto rimanere. Con il mare di fronte e l’asfalto alle spalle.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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