Pindaro e l’Etna, tra fuoco e neve: quando Catania e il suo vulcano divennero una cosa sola
Al poeta greco, autore della “Pitica I”, si deve una delle più belle descrizioni liriche del Mongibello che siano mai state scritte. Ma egli, che a lungo risiedette in Sicilia, non fu solo testimone diretto di quell’esplosione di magnificenza, ma anche narratore di un evento singolare che coinvolse il tiranno Ierone e le sue mire verso la città. Che per un tempo cambiò persino nome
Con la sua solita, irrefrenabile inventiva Voltaire amava dire: «La scrittura è la pittura della voce». Come a lasciare intendere che certe effusioni d’inchiostro, certe raffinate suggestioni di carta possono rivaleggiare, sovrapporsi, intrecciarsi con la cornice di un quadro. Le parole possono farsi striatura, pennellata incisa; i versi sfumature di colore, ombreggiature increspate, lampi di eternità. Possono cristallizzare, le pagine: tracciare forme al di fuori del tempo, ritrarre l’invisibile fino al punto da renderlo tangibile, immortalare la maestosità dell’esistenza più quanto essa possa mai autoaffermarsi. Scrivere è, essenzialmente, un mosaico di connessioni: un’eco lontana che progressivamente si rende presente, che si svela anche a chi credeva di non saperlo riconoscere. È un fremito che attraversa l’essere e si lancia verso l’ignoto, congiungendo realtà altrimenti destinate soltanto a sfiorarsi. Quel medesimo fremito, c’è da scommetterci, che ha avvicinato, reso complici, avvinto insieme uno dei più grandi poeti dell’antica Grecia e il nostro amato, temuto, ammirato vulcano. Pindaro, l’uomo dalla penna indomabile, l’acrobatico responsabile dei proverbiali e fantastici voli, e l’Etna, custode millenario di miti, meraviglie e riverenze. Un incontro inatteso, non universalmente noto, eppure profondo, capace di lasciare una traccia indelebile nella storia, per così dire, letteraria della Sicilia e di uno dei suoi simboli più riconoscibili. Al poeta nativo della Beozia ma di nobilissime origini spartane si deve, infatti, uno degli omaggi più sentiti e pregiati che la scrittura abbia mai offerto al vulcano. Un atto quasi d’amore, venato di una profondità che difficilmente si potrebbe abbinare a qualcuno poco avvezzo a tremori e cenere. E che, per di più, ripercorre una fase cruciale e singolare della storia di Catania. Quando il Mongibello e la città che giace ai suoi piedi divennero, per decreto, una cosa sola. Quando l’imponente progetto di un tiranno trovò, almeno transitoriamente, la sua fastosa realizzazione.
Ierone ribattezzò Catania in “Aitna”. Il vulcano di Encelado o Tifone, celebrato dall’epica e dal folklore greco, era diventato, anche metaforicamente, un gigante totalizzante. La montagna madre capace di dare geograficamente vita a nuove, future generazioni di sicelioti. Di tutto questo Pindaro fu testimone diretto
Nell’ode Pitica I, composta nel 470 a.C, Pindaro non si limitò a celebrare le imprese sportive che ogni quattro anni animavano la città di Delfi in onore di Apollo, ma a traslare in lirica un vero e proprio scorcio della storia siciliana. Una storia che il poeta doveva aver bene interiorizzato negli anni trascorsi ad Agrigento e a Siracusa alle dipendenze di committenti d’eccezione come i tiranni Terone e Ierone. Fu proprio quest’ultimo a rendersi protagonista della vicenda che il poeta abilmente scolpì nel suo componimento. Diventato signore di Siracusa nel 478 dopo la morte del fratello Gelone – eroe dell’epocale battaglia di Imera del 480 in cui i Greci ebbero la meglio sui Cartaginesi – perseguì con pervicacia l’obbiettivo di imporre la propria influenza sull’intero versante orientale dell’isola. Per farlo, era necessario sottomettere Catania, ultima roccaforte ionica al dominio dorico. La conquista avvenne durante il biennio 476-475, non senza turbolenze. Ierone, che tanto si identificò in quell’impresa da pretendere di essere definito “l’etneo”, fece della città la sua nuova residenza, costringendo gli abitanti a trasferirsi nella vicina Leontinoi e sostituendoli con genti di stirpe dorica. Quel luogo enne dunque ribattezzato: Aitna, ovvero Etna, fu il nome che per circa quindici anni venne imposto alle popolazioni locali. Il vulcano di Encelado o Tifone, celebrato dall’epica e dal folklore greco, era diventato, anche metaforicamente, un gigante totalizzante. La montagna madre capace di dare geograficamente vita a nuove, future generazioni di sicelioti. Di tutto questo Pindaro fu testimone diretto. E non poté che, tra un augurio e l’altro di buon governo a Dinomene, figlio di Ierone designato reggente della città, partire da questa valenza immaginifica, semantica. Dalla magia di un luogo che già allora, con regale naturalezza, ispirava il grande canto della letteratura e del teatro. «Sgomenta il nemico dei Numi, che giace nel Tartaro, Tifone dai cento cerèbri. Un dí l’ospitava l’antro famoso Cilicio: ora le spiagge di Cuma, ch’àn siepe di flutti, e Sicilia, gli premono il petto villoso: lo schiaccia, colonna del cielo, Etna nevosa, nutrice perenne di fulgida neve, dalle cui latebre rugghiano fonti purissime d’orrido fuoco. Di giorno, fiumi travolgono flutti di fumi e faville: nel buio purpurea vampa giù rotola, rocce portando con lungo strepito al ponto profondo. Tali d’Averno terribili flutti su avventa quel drago: miro spettacolo, a scorgerlo da presso: chi l’oda narrare da quanti lo videro, anch’egli stupisce, come de l’Etna sui vertici negri di boschi, giù sino al piano, legato stendesi, e il crudo giaciglio tutto aspro gli lacera il dorso».
Catania riacquistò il suo consueto nome intorno al 460. Ma l’occhio della poesia fu certo lungimirante. Perché Pindaro, nel suo ondoso verseggiare, intravide del vulcano quella dimensione teneramente materna unirsi, per paradosso, alla sua minacciosa, terrificante potenza. L’abbraccio ombroso tra fuoco e neve, tra la quiete cristallina del giorno e la prorompente veemenza notturna. Tra luce, buio e fiamma. Ciò che, insomma, continua a rendere i catanesi così simili, speculari al loro simbolo. Ciò che cova, come magma, nei sotterranei del loro istinto.
(Immagine in copertina realizzata con OpenAI)





