Se il passato diventa una gabbia: Argo, Bufalino e il coraggio di vivere il proprio tempo
«Se tornassi indietro, rivivrei la mia vita in modo completamente diverso». Quante volte, tra una battuta a denti stretti e un’ingenua lode dei tempi andati, ci siamo lasciati andare a simili considerazioni? Facili prede dell’illusione suprema, dell’utopia che accompagna gli esseri umani fin dal primo istante della loro storia: riacciuffare il passato per sottrarsi all’insoddisfazione del presente. In questa corsa affannosa a ritroso, in questo furioso e nostalgico inseguimento di una felicità che non accettiamo di aver smarrito, si snoda una verità dura da digerire: siamo noi stessi, il più delle volte, a generare il peso che ci opprime. Perché, volgendo altrove le nostre energie, ad un tempo e ad uno spazio che ci sono già scivolati tra le dita, finiamo inconsapevolmente per vivere delle vite da fuggiaschi, per percorrere un limbo senza via d’uscita, nella sospensione di ciò che non è stato e ciò che, a causa del rimpianto, rischia di non essere mai. In un non-luogo che rende la memoria non più l’alto valore che definisce la nostra identità, ma una gabbia perenne e soffocante che la smargina. Più volte, su questo confine turbinoso, sulla sofferenza che deriva dal riscoprirsi immobili, si è ritrovato il grande Gesualdo Bufalino. Il quale, nonostante fosse fortemente convinto del valore salvifico della scrittura, della sua funzione consolatoria rispetto alle storture del reale, a più riprese non poté fare a meno di interrogarsi sul senso di un tale andirivieni interiore. Giungendo alla conclusione che la sensazione della perdita è strettamente connessa alla miopia del dolore. All’insistenza con cui, mentre ignoriamo e diamo alle spalle a ciò che ci sta di fronte, diamo la caccia a sagome, ombre, fantasmi,
Tra le opere del genio di Comiso che più ardentemente si soffermano su questo tema, Argo il cieco spicca per la sua valenza simbolica – rintracciabile, del resto, già dal titolo – ma anche per il suo stile peculiare, che coniuga il consueto acrobatismo linguistico ad un tono soffuso, quasi confessionale. C’è molto dell’autore, in effetti, in quel protagonista a tratti misterioso, che ci confida di essere un insegnante avanti con gli anni confinato in un’angusta camera d’albergo a Roma, condannato a rimuginare sui fatidici eventi dell’estate 1951 in una Modica incorniciata di giovanile allegrezza. Un protagonista che ben presto, tuttavia, rivela la sua vena malinconica: alla dolcezza del ricordo iniziale si sovrappongono dolorose omissioni, ricostruzioni parziali e accomodate, cesure ancora scottanti, irrisolte. Come quella incarnata dall’amata Maria Venera, dall’irrealizzabile amore per costei, mai del tutto confessato e poi repentinamente svanito alla scoperta della gravidanza di lei e a seguito della sua partenza. «Fui giovane e felice un’estate – dichiara l’io narrante – nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate». Una rassicurazione di facciata, un tentativo disperato di autoconvincimento, di conferma. Quello che il personaggio bufaliniano rivive attraverso la propria interiorità è davvero un passato felice? O è solo una proiezione di comodo? È la fonte in cui ritrovarsi o il vaso di pandora che, a distanza di così tanti anni, ancora lo inibisce? È, insomma, terapia del vivere o paura del vivere? «Qui – a Roma, ndr – la mia luna non giunge, la mia iblea, agricola luna. La cerco senza speranza…». Ecco allora che l’arcano si svela agli occhi del lettore. Il paradosso di Argo è compiuto: da gigante dei cento occhi del mito greco, capace di vedere ogni cosa persino durante il sonno, a portatore dell’oscurità del mito moderno. Gli occhi sul presente di questo nuovo, fragile, insicuro Argo rimangono chiusi, incapace di tornare indietro ma, soprattutto, di restare vigile sul presente. E quindi di progredire. La vera malattia, sembra dirci egli stesso tra le righe, è rinunciare all’oggi. «Mi sembra certe volte di invecchiare incatenato alla mia memoria, come invecchiano nelle caverne i draghi custodi accanto al tesoro. Senza che mai sopraggiunga da fuori un solo paladino a sfidarli. Poveri, rugosi draghi, dal corpo a scaglie stipiti d’ulivo, incarcerati nel buio, in attesa che una durlindana gli luccichi innanzi e paghi loro la pazienza! Mentre gli anni passano…».
Vivere il proprio tempo non è appena un’opportunità, ma un dovere. È il presupposto necessario per la felicità. La condizione prima per affievolire l’oppressione che i ricordi hanno su di noi. Il passato – è il messaggio che Bufalino si premura di consegnarci – deve essere una lezione, non una condanna. Incaponirsi sull’idea di stravolgerlo può diventare consumante. A tal punto da offuscare la visione delle cose. La visione di noi stessi. Quel presente che vorremmo fuggire a prescindere, ma che può ancora essere ri-scritto.