Sicilia, scrigno di fiabe e di realtà: quando Calvino seguì le tracce di Pitrè
La letteratura è, essenzialmente, una questione di traiettorie. Di favolose e misteriose direttrici che finiscono per incrociarsi e per contaminarsi. Stanno lì, rannicchiate tra le pieghe del tempo, in attesa che il destino, con la sua consueta teatralità, decida di farle snodare attraverso un suggestivo incontro. Più di anime, spesso, che non di fisica vicinanza. Basta un verso, il ricordo sbiadito di una vecchia citazione, una pagina consunta ed ingiallita ad innescare la connessione dalla quale nascerà, poi, una rinnovata sintesi. E come nelle fiabe, secondo il celebre schema elaborato da Vladimir Propp per lo studio delle loro strutture narrative, accanto ai protagonisti di queste conturbanti vicende ci sono sempre degli appassionati aiutanti. Degli instancabili ricamatori di suggestioni che, affannandosi dietro le quinte della storia, si assicurano di condurre la trama al lieto fine sperato. Proprio all’immaginario fiabesco è legato uno di questi sorprendenti intrecci. Un triangolo di ingegni il cui baricentro non può che essere il ricchissimo patrimonio etno-antropologico della Sicilia. A restarvi dolcemente invischiato fu nientemeno che Italo Calvino, tra i più grandi cultori novecenteschi della narrazione di fantasia che nel 1956 diede alle stampe, per Einaudi, un’opera di assoluto pregio: Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti. Uno sforzo mastodontico per quantità e per pregio a cui – è poco noto – contribuì in maniera decisiva un siciliano d’eccezione. Vale a dire quel Giuseppe Cocchiara originario di Mistretta e annoverato tra i maggiori studiosi di folklore nel nostro Paese. Fu lui, che presso la casa editrice torinese si occupava della Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici e aveva già caldeggiato la pubblicazione di grandi antologie di racconti quali quella dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, a consegnare all’autore de Il barone rampante alcuni fondamentali riferimenti per lo studio della cultura popolare siciliana. I suoi suggerimenti dovettero essere estremamente affascinanti e convincenti, se è vero che Calvino, a seguito di un viaggio nell’isola datato 1954, fece delle fiabe siciliane l’insieme più ampio all’interno della sua opera. Ed è qui, dinanzi a questa piacevole scoperta, che aveva fatto il suo ingresso in scena l’altro personaggio siciliano della storia. L’immancabile Giuseppe Pitrè, le cui ricerche erano state sottoposte allo scrittore nato a L’Avana proprio da Cocchiara.
«Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tentacolare, aracnoidea dell’oggetto del mio studio. Mi poneva – scrive Calvino nell’introduzione alle Fiabe – di fronte alla sua proprietà più segreta: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non corrosa ma soltanto eccitata dal proseguire della mania, andava scoprendo che questo fondo fiabistico popolare italiano è d’una ricchezza e limpidezza e variegatezza e ammicco tra reale e irreale da non fargli invidiar nulla alle fiabistiche più celebrate dei paesi germanici e nordici e slavi». Di questa entusiastica spedizione tra i relitti del folklore, Calvino aveva fatto di Pitrè la sua stella polare. Al medico palermitano lo univano, del resto, diversi elementi: il contatto con le discipline scientifiche (nel caso di Calvino per via dei suoi più stretti familiari) sapientemente mitigato dall’umanesimo della lingua e della narrazione, il rigore dello studio mescolato e applicato al fantastico trasognare delle narrazioni popolari, l’idea che le fiabe fossero, a tutti gli effetti, gli archetipi primigeni dei fatti reali. Più la lettura delle raccolte di Pitrè si faceva profonda, intensa ed incalzante più questo naturale processo di identificazione appariva naturale ai suoi occhi. «Era per me – e me ne rendevo conto – un salto a freddo, come tuffarmi da un trampolino in un mare in cui da un secolo e mezzo si spinge solo gente che v’è attratta non dal piacere sportivo di nuotare tra onde insolite, ma da un richiamo del sangue».
Una metafora afferente all’immaginario dell’avventura e dell’acqua, dunque. Tanto significativa agli occhi dell’autore da sfociare in una curiosa identificazione. Per sua stessa ammissione, infatti, Calvino si rivedeva nelle peripezie del mitico Cola Pesce, che non a caso è il personaggio, nella raccolta, a cui viene affidato il compito di aprire la sezione dedicata alla Sicilia. Nel suo indomabile spirito di libertà, nell’instancabile attitudine all’esplorazione dei fondali e dei luoghi più impervi, che asseconda la convinzione di poter riportare alla luce segreti e meraviglie ritenute perdute. O, nel caso peggiore, di restare costantemente cullato da quella mareggiata. «Quasi per salvare qualcosa che s’agita là in fondo e se no perdercisi senza più tornare a riva, come il Cola Pesce della leggenda».
Tra Giufà e Gràttula, tra il Gran Narbone ed Erbabianca, Calvino aveva davvero trovato, come un novello eroe marino, dei tesori dal valore inestimabile. Uno lo aveva annusato prima ancora di iniziare a scrivere: le fiabe, nel loro acrobatico librarsi sull’improbabile, sono più vere e vive che mai. L’altro, invece, lo aveva scoperto soltanto cammin facendo. Ascoltando i consigli spassionati di un antropologo di Mistretta e sfogliando le pagine di un etnologo palermitano: è la Sicilia lo scrigno infinito e policromo della dimensione fiabesca.