“Suite Etnapolis”: il centro commerciale come metafora del contemporaneo
Un’umanità che resiste, pur in balìa di una crisi economica che ne segna le sorti, è la protagonista del poemetto di Antonio Lanza, edito da Interlinea. Ma come si può trovare la poesia nel più improbabile dei luoghi? Lo abbiamo chiesto all’autore
La crisi economica innescatasi nel 2007 negli Stati Uniti ha scardinato tutte le certezze che l’Occidente ha costruito dal secondo dopoguerra e ha diffuso un grande senso di precarietà e paura. In questo clima galleggiamo tutt’oggi, tra sogni mancati e speranze deluse, mentre i nostri valori si incagliano tra gli scogli e la marea continua a trascinarci come ossi di seppia inermi. La grandezza dell’arte però sa sempre trasformare la grettezza dell’umanità in templi di pietre e parole che sapranno resistere anche alle tempeste più violente e raccontare di noi a chi ci conoscerà solo attraverso un manuale di storia. È così che tra il 2013 e 2015 nasce “Suite Etnapolis”, il poemetto di Antonio Lanza edito da Interlinea che utilizza il microcosmo dell’omonimo commerciale in provincia di Catania per parlare della nostra epoca, di cosa significhi capitalismo e post-moderno, del macrocosmo in cui siamo immersi. Cosa si nasconde dietro la versione immaginata dall’autore del parco commerciale firmato Fuksas? Lo abbiamo chiesto all’autore.
Come definiresti quest’umanità che fa da protagonista nella tua opera?
«L’umanità di Suite Etnapolis è ferita nell’orgoglio perché appartiene ad una classe di lavoratori spesso costretta a svolgere mansioni che non corrispondono al grado di istruzione ricevuta. I personaggi del mio poemetto sono costretti a subire l’incombere della crisi economica, che è uno dei protagonisti silenziosi della raccolta, e si aggirano tra negozi che hanno chiuso i battenti con l’angoscia di perdere il lavoro essi stessi e la paura di quel contratto a tempo determinato che sta per scadere. Quest’umanità però resiste, ancorata ad un forte senso di appartenenza ai luoghi dell’infanzia o della spensieratezza giovanile che vengono spesso rievocati nell’opera».
A cosa fa riferimento il titolo “Suite Etnapolis”?
«Volevo esprimere nel titolo l’esigenza di coralità che mi ha spinto ad introdurre nel poemetto diversi personaggi, il cui apporto è fondamentale nel dare un senso all’opera e nel descrivere il luogo asettico in cui si muovono e lavorano. Suite è un termine che mutuo dalla musica, indica infatti un componimento diviso in più parti dal ritmo alternato ma di uguale tonalità. Nel poemetto si susseguono diversi stili, c’è la poesia ma anche la prosa giornalistica o quella dei social, e questo mi consente di restituire la complessità del nostro mondo. Il centro commerciale Etnapolis rappresenta quei confini certi da cui non si può fuggire, solo i personaggi con le loro storie e la loro vita mi danno la possibilità di allontanarmene. Il centro commerciale è il mezzo per raccontare il mondo del lavoro e la contemporaneità, quel particolare che mi permette di restituire l’universale».
In che modo un luogo così sterile e impersonale si trasforma in poesia?
«Credo che la poesia sia l’esatto opposto dell’iperuranico e non debba essere distante dalla quotidianità. Il mio sforzo è stato quello di portare la poesia in basso per raccontare qualcosa che sembra apparentemente non avere nulla a che fare con questa. Parlare di Etnapolis attraverso un poemetto mi ha permesso di scardinare alcuni gambi del centro commerciale, come le voci degli altoparlanti. Mentre scrivevo ho cominciato a riflettere ad esempio sul fatto che le voci maschili invitano sempre ad uscire, mentre sono quelle femminili che accolgono i clienti. Mi piaceva che la poesia riuscisse a spiegare a me stesso e al mio lettore la complessità di un mondo apparentemente semplice e banale, mentre mi proteggeva contemporaneamente come uno scudo da quella grettezza. A monte di tutto c’è poi la convinta scelta di utilizzare la poesia, a cui mi ero già dedicato in passato e che mi consentiva un approccio più immediato e meno narrativo, sebbene nella seconda parte del poemetto la prosa si faccia sempre più fitta laddove la poesia non riesce ad insinuarsi. Il perimetro del tema ben delineato mi ha consentito di tramarvi sopra altre storie, anche con una scrittura non strettamente poetica».
Quali sono stati i tuoi modelli?
Senz’altro Elio Pagliarani con “La ragazza Carla”, un poemetto che racconta di una ragazza che affronta la vita lavorativa, ma anche Vittorio Sereni da cui ho recuperato la dimensione teatrale forzandola un po’ e trasformando quelle che nel poeta de “Gli strumenti umani” sono voci psichiche in personaggi in carne ed ossa, e poi sicuramente l’Eliot di “The Waste Land”. Credo poi che ogni poeta abiti il suo tempo, per questo motivo per me i Pink Floyd sono stati un punto di riferimento fondamentale, la stessa parola Suite proviene dalla loro musica e anche l’idea di strutturare un libro narrativamente sul modello di “The Wall” ».
Che valore ha il cervo nella conclusione dell’opera?
«Il cervo ha una forte valenza metaforica. Quando ho iniziato a scrivere Suite Etnapolis volevo qualcosa che scompaginasse la ciclicità delle giornate di un centro commerciale, luogo dal quale la paura della morte è tenuta ben lontana. Un giorno però mi sono accorto che nel giardino di Etnapolis c’è un cipresso che è l’albero della morte, un bel paradosso per un luogo in cui questa deve essere dimenticata. Nell’opera ho quindi recuperato il mito di Ciparisso, un personaggio che ama la caccia e di cui Apollo si innamora. Quando però Ciparisso uccide per errore il cervo, la divinità lo trasforma in un cipresso dalla cui corteccia escono lacrime. In “Suite” il cervo è inizialmente un animale reale che si aggira per il parco di Etnapolis, ma quando il giornalista comincia ad intervistare tutti coloro che lo hanno avvistato, nei loro racconti assume un senso sempre più profondo».
Che ruolo ha oggi la poesia?
«Ciò che rimprovero alla poesia oggi è la sua incapacità di raccontare il mondo come fa la prosa, a me piace la poesia che si scommette e rischia la caduta. Mentre scrivevo Suite mi piaceva avvertire che la costruzione che stavo mettendo su poteva cadere da un momento all’altro, solo questo mi ha consentito di tenere lo sguardo fisso sulla complessità del mondo. C’è una poesia di Anna Achmatova in cui questa racconta i mesi trascorsi davanti la prigione di Leningrado per poter vedere il figlio. In particolare, una mattina in cui una donna la riconosce e le fa una domanda: “«ma lei può descrivere questo?» E io dissi: «Posso»”. Il ruolo della poesia è tutto in quei brevi versi».