Un moschettiere mancato: Michele Palmieri di Micciché, una vita tra spade, inchiostro e rivoluzioni
Nobile ma squattrinato, amante dei duelli e delle avventure, scrittore di grazia ed ironia sopraffina. Sembra uscito da un romanzo francese, ma la vita di questo stravagante isolano ebbe inizio proprio nel centro della Sicilia, nel castello di Villalba. La Francia, tuttavia, era nel suo destino. E lì, dopo aver partecipato ai moti siciliani, di inizio ‘800, tra principi, cospirazioni e l’illustre amicizia con Stendhal, la sua vita venne definitivamente consegnata alla storia
Un nobile decaduto e a tratti squattrinato che decide di inseguire la sua insaziabile voglia di avventura. Il clangore delle spade e l’intraprendenza di uno spirito anarchico. La fervida fantasia di una penna dalle prodigiose capacità. Sembrerebbe quasi, questo tratteggio di tela letteraria, un sommario tratto da un romanzo d’appendice. Da uno di quei feuilleton che, puntata dopo puntata, mandavano in visibilio il vorace pubblico francese, che attendeva con trepidazione di conoscere la sorte dei loro beniamini di carta. Un personaggio alla Dumas, per intenderci. Sembrerebbe, appunto. Se non fosse che la realtà, a cavallo tra ‘700 ed ‘800, si è dilettata a dare nome e forma a tali peripezie. Che hanno, come epicentro, un castello situato in un piccolo paese del nisseno: Villalba. È lì che, terzogenito del barone Placido, crebbe infatti Michele Palmieri di Micciché, sregolato, indomito e geniale siciliano il cui nome finì per risuonare nei salotti più chic d’Europa e per figurare tra quelli dei protagonisti di alcuni dei maggiori sconvolgimenti politici della sua epoca. E proprio la Francia, dalla quale il nostro conterraneo sembrava curiosamente essere stato cavallerescamente allevato, si rivelò la patria del destino, più di quella Sicilia dalla quale, suo malgrado, aveva ricevuto un non indifferente carico di amarezze. Fu il contesto familiare, del resto, a plasmare il suo eccentrico carattere: i modi freddi ed affettivamente ingessati del padre, il conflitto con il fratello maggiore Niccolò per ragioni economiche, la prospettiva di un’eterna dimensione da cadetto. Gli amori arditi, l’eccezionale eloquenza e una certa insofferenza nei confronti del potere e delle sue ipocrisie fecero il resto. Ben presto Michele si ritrovò nei più prestigiosi circoli palermitani, protetto da signori – e signore – d’alto lignaggio e fatalmente attratto dai magmatici rivolgimenti che, di lì a poco, avrebbero investito l’isola. Fu, infatti, tra i favorevoli alle manifestazioni che indussero Francesco di Borbone a concedere una Costituzione di stampo liberale nel 1812. E fu, dopo una breve parentesi napoletano, tra i propugnatori dei moti del 1820, conclusi in un nulla di fatto.
Da quella esperienza militante Palmieri rimase profondamente segnato. Il suo sguardo sul mondo, fino ad allora intriso di una suadente ed irruenta leggerezza, lasciò progressivamente il campo ad un’osservazione più posata e sarcasticamente lucida della società all’interno della quale continuava tuttavia a farsi notare. Giunto a Parigi insieme con il fratello Rodrigo, seppe conquistare il favore di alcune delle più celebri personalità del XVIII secolo. Conobbe il principe Luigi Filippo d’Orléans, nonché scrittori del calibro di Berchet, Manzoni e Stendhal, al quale fu estremamente legato. A riprova di ciò, in un passo incluso nel suo saggio L’adorabile Stendhal, Leonardo Sciascia rivelò quanto importante fosse il debito immaginifico contratto dallo scrittore francese nei confronti di quell’enigmatica figura. Non soltanto, infatti, «doveva a Michele Palmieri di Micciché i dettagli più originali e più veri su Napoli e la Sicilia», ma anche e soprattutto una preziosa ispirazione che venne riversata in uno dei suoi capolavori, vale a dire La Certosa di Parma, al capitolo XX. Lo stesso Palmieri, sempre più associato al progressismo dei repubblicani parigini e per questo irrimediabilmente inviso al Regno delle Due Sicilie che ne decretò l’esilio, aveva iniziato a frequentare in prima persona la scrittura. Un po’ per dare ulteriore sfogo alla sua galante stravaganza, un po’ per tentare di sbarcare il lunario, nel 1830 diede alle stampe Pensées et souvenirs, una sorta di memorialistico viaggio a ritroso attraverso alcuni degli incontri e degli aneddoti più significativi della sua vita. Il successo, almeno dal punto di vista della considerazione degli altri intellettuali, fu pressoché immediato e gli valse una stima che non conobbe pause. Almeno fino al 1844, anno in cui, per grazia concessa da Ferdinando II, tornò a Palermo. Giusto in tempo per l’ultima, decisiva mortificazione dei suoi ideali: la riconquista borbonica dopo la Rivoluzione del 1848.
La sua vita cessò nel 1864. Solo ed impoverito. Non tanto delle sue finanze – le cui croniche difficoltà, comunque, pare lo portarono a richiedere a Garibaldi la restituzione di una sorta di pensione che gli era stata sottratta – quanto, piuttosto, della sua carica eversiva. Ma davvero, quando un fuoco si estingue, ci si può dimenticare della fiamma che ha saputo produrre? Tra coloro che assistettero al suo divampare, tra le strade di Parigi, c’era anche il genio nascente di Alexandre Dumas. E chi sa che questa sorta di moschettiere isolano mancato non continui a vivere tra un D’Artagnan, un Rochefort e un monsieur Bonacieux.