Una chitarra sul mare di Selinunte: Pino Veneziano, l’ultimo dei cantori
Il guardiano di capre che divenne la voce dei siciliani sofferenti, il garzone che divenne il titolare di un ristorante in cui Dalla, De André e Borges si sentirono a casa. È la storia di un uomo, nato a Riesi, che con le corde della sua musica seppe raccontare in siciliano i cambiamenti, le storture e le bellezze di un mondo che oggi, forse, non c’è più. Ma che continua a ricordare i suoi versi apparentemente semplici, ma raffinati
Jorge Luis Borges lo conobbe nel 1984. Tra i tavoli del Lido Azzurro, dove il mare fa da culla al sonno di Selinunte. La malia del suo canto rigorosamente in siciliano, il suo incedere da gitano, la sofisticata e rude vibrazione prodotta dalle corde della chitarra lo avevano trasmigrato in una dimensione di ricordi futuri. Quelli dei barrios argentini, dei tangheri avviluppati agli occhi volteggianti delle compagne di Molinete. Non volle nemmeno che qualcuno si prodigasse per tradurgli quei versi. Desiderò soltanto scrutarne l’anima. Non con la consuetudine degli occhi, che non lo assistevano più. Ma seguendone con la mano, con la tenerezza di una carezza, i lineamenti. Prima di lui, De André, Dalla e Buttitta si erano lasciati attraversare dalla sua voce. Lì, dove le imponenti colonne greche si stagliavano ad un tiro di sguardo, dove gli arabi avevano tentato di rivitalizzare il centro abitato dopo l’abbandono dei Romani, si condensava tutta la caleidoscopica storia siciliana. Allo stesso modo di ciò che avveniva nella persona di Pino Veneziano, l’ultimo dei cantori, lo spirito libero che musicava il mondo in barba ai potenti. Anche Vincenzo Consolo, che pure non ebbe mai l’opportunità di conoscerlo personalmente, rimase abbagliato da quell’arte verace ma intimamente raffinata e da quella storia che sembrava ritagliata da un antico dramma pastorale dell’Arcadia. Come non subire la fascinazione di un uomo che aveva imparato ad imbracciare la chitarra alla soglia dei quarant’anni dai sapienti consigli di Vincenzo Fasulu, detto Piricuddu? Che, nato a Riesi nel 1933, aveva speso la sua giovinezza come guardiano di capre, prima di arrabattarsi come garzone di un fornaio e di un bar? E che poi, da semplice cameriere, era riuscito a mettere su il suo locale, nel quale amava inabissare il suo talento lontano da ogni frivola mondanità?
La musica fu per Veneziano quasi la riscoperta di un istinto naturale. Una dopo l’altra, le canzoni si materializzavano sulle sue corde come se fossero sempre state lì, acquattate in un angolo ad aspettare di essere svelate. Canzoni di impegno civile, che tendevano la mano agli sfruttati, ai dispersi, ai girovaghi senza meta. E che mettevano alla berlina le ipocrisie dei benpensanti, le soperchierie dei possidenti, le trame oscure delle grandi stragi italiane di matrice neofascista. Un uomo profondamente calato nel proprio tempo, eppure decisamente fuori dallo stesso, aggrappato com’era a quella forma di canto popolare anti-moderno, destinato lentamente a spegnersi. E invece, come una fiamma che giace sotto una brace quiescente, nulla sfuggiva al suo occhio indagatatore, compassionevole, severo. Non la miseria e l’abbandono, cantati in Lu sicilianu: «Lu sicilianu è ‘nta tuttu ‘u munnu, / ppi travagghiari sempri va girannu; / lu zingaru ‘un nn’è cchiù lu gitanu, / ma è lu calabrisi e lu sicilianu. Nascivi ‘nta sta terra fatta a tri pizza, / sugnu costretto a l’emigrazioni, / vajiu campannu di umiliazioni, / e dunni arrivu mi mettinu la cavizza. / Chista è la sorti ddi lu siciliano / Ca a tutti i banni chiamanu gitanu». Né la tremenda subordinazione dei lavoratori in campagna, ritratta in Lu patruni è suverchiu: Parlu ccu viatri / ca diciti sempri: / “Chiamati patri / a cu vi duna pani” / iu vi dicu ca nunn’è veru nenti, / ma siti viàtri ca cu li vostri manu, / ci dati pani, / cumpanaggiu e vinu. / Ccu lu travagghiu di li vostri vrazza, / campanu iddi / ca su’ n’autra razza. / Un sulu patri avemu! / ed è lu suli!». Né, ancora, la meschinità che faceva tremare un intero paese: «Chiancemuli ‘sti morti! /
Chiancemuli chiù forti! – canta in Piazza di la Loggia – D’accordu sunnu iddi / fascisti e patruna, / ca ammazzanu a l’urvina / onesti e puvireddi». E poi ancora il senso di connessione con la natura, lo struggente bisogno d’amore, il rammarico per una incomunicabilità di fondo che rende gli uomini estranei ai vicendevoli dolori. Un poeta che seppe, insomma, farsi investire dalla realtà. Senza tuttavia che questa lo travolgesse. Sempre scaltro, attento, a ricavarsi uno spazio di autonomia.
A quindici anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1994, Consolo si espresse così su di lui nell’introduzione al volume Di questa terra facciamone un giardino: «Si sono perse le voci, e per sempre, dei poeti e dei cantori popolari di Sicilia, così come d’ogni altra regione o plaga di questo nostro paese, di questo nostro mondo d’oggi, assordato dai clamori imperiosi della violenza e della stupidità. Ma rimangono, in questa plaga della più classica Sicilia, ancora vivi i tratti gitaneschi, le parole e la musica del Veneziano». Forse perché scindere la terra dal poeta, l’immagine dal suo scultore, non è possibile. E finché la Sicilia avrà un volto, una storia, un’anima, un ricordo, allora l’avrà anche il suo riflesso nella chitarra di Veneziano.
(Immagine di copertina creata con Bing Image Creator)