Un’umanità immobile in cerca di cambiamento nelle sculture di Giuseppe Agnello
Con il suo nuovo progetto dall’evocativo titolo “Paludi”, visitabile dal 22 giugno al 10 novembre presso Fondazione La Verde La Malfa, l’artista racalmutese utilizza il linguaggio e la materia naturale per esprimere la fossilizzazione della società odierna
È un’umanità stanca e a tratti inerme quella scolpita nella materia calcareo-cementizia dall’artista Giuseppe Agnello, come lascia intendere il titolo della mostra “Paludi”, che raccoglie ben 15 opere della produzione recente, tra cui molte inedite. L’esposizione, curata da Daniela Fileccia e promossa e ideata da Alfredo La Malfa e Dario Cunsolo, sarà inaugurata sabato 22 giugno nella sala espositiva della Fondazione La Verde La Malfa e sarà visitabile fino al 10 novembre 2019. In attesa di scoprire le nuove opere, abbiamo intervistato lo scultore racalmutese.
La sua arte utilizza la natura quale fonte inesauribile di materia e ispirazione. Nel caso delle opere che compongono “Paludi” ha utilizzato la materia calcareo-cementizia, potrebbe spiegarci questa scelta?
«Il progetto “Paludi” è una prosecuzione dei lavori precedenti. Con “Arcadio”, il luogo in cui tutto accade, presentato a Giardini Naxos, volevo raccontare il movimento degli uomini e quello inesauribile della natura. I frammenti di paesaggi sono stati il tramite per parlare dell’energia della terra e del moto perenne degli uomini in costante migrazione. In questo senso, Naxos è un luogo fortemente simbolico perché è stato il primo approdo dei greci in Sicilia, così come oggi lo sono Lampedusa e gli altri porti siciliani per i nuovi migranti. In “Paludi”, invece, attraverso le 15 sculture, racconto della stagnazione e ho deciso di farlo imprimendo le forme nella materia calcareo-cementizia per rievocare il processo di fossilizzazione che è avvenuto. È come se quel moto incessante con cui l’umanità ha consolidato i suoi valori nei secoli si sia arenato e immobilizzato».
Come è nata questa correlazione tra i corpi umani, sinonimo di vitalità, e la palude, metafora di ciò che è stagnante?
«Il corpo racconta dell’uomo, della sua attuale condizione di fossilizzazione dal punto di vista dei valori e non della scorza esteriore. Da artista non ho mai vissuto il distacco con la società, anzi questa è sostanza delle mie visioni, ogni progetto è nato dal costante raccordo con la società. Oggi con “Paludi” racconto la mia percezione del mondo, descrivo il luogo in cui viviamo e ciò che stiamo perdendo. “Paludi” è insomma il luogo in cui dei corpi immobilizzati e grigi assomigliano a dei fossili».
Qual è il rapporto tra uomo e natura nella sua arte?
«Ogni artista racconta sé stesso e la propria formazione. Io ho un rapporto molto forte con la natura perché sono cresciuto in campagna, sono un ambientalista e tutto questo si riflette in quello che penso e realizzo. Spesso utilizzo piante, boccioli di acanto, radici o semi nella mia opera per raccontare un rapporto uomo-natura molto personale. Nella mostra “Dalle Dure Pietre” ad esempio ho mescolato alla materia scultorea dei boccioli che rappresentavano l’energia della natura tradita, la promessa di un fiore che si fossilizzava nel gesso e di cui restava solo ciò che sarebbe potuto essere. Si tratta in fondo della condizione della nostra esistenza: tutti sogniamo, progettiamo, però la società non possiede un dinamismo tale da far fiorire tutti questi boccioli, che spesso sono quindi costretti ad emigrare come i nostri giovani. In “Paludi” ho utilizzato dei semi di girasole, anche quelli resi così incapaci di dare frutti. Ecco nelle mie opere c’è sempre questo senso di ciò che poteva essere e non è accaduto, una sensazione che trasformo in arte. Da 50 anni sento parlare di cambiamento ed oggi mi rendo conto che questo è avvenuto solo marginalmente. Voglio sperare che voi giovani possiate vedere questo cambiamento, se mai accadrà, a me resta la rabbia nei confronti del fallimento della mia generazione che ha tanto sbandierato la rivoluzione per poi rivelarsi impotente una volta raggiunto il potere».
Che valore hanno nella sua arte le radici, intese come l’appartenenza ad un territorio, alla sua storia e alla sua identità?
«Il senso di appartenenza oggi lo vivo un po’ meno perché ho iniziato una fase di distacco, però in passato il legame con il territorio e con il paesaggio sono stati fondamentali. Ho visto crollare le civiltà contadine, ho assistito alla trasformazione dei paesaggi, alla scomparsa di una Sicilia composta dalle umili case dei contadini. Ho realizzato delle sculture che raccontavano anche questo, in cui la natura ribaltava tutto e vinceva sempre. Già a vent’anni ero molto sensibile a queste tematiche, però c’è un momento preciso nell’esistenza in cui le radici riaffiorano e generano nostalgie e mancanza. “Memorie: vedute laterali e oblique” era pregna di questo sentimento rappresentato da radici che uscivano dalla testa, come se i corpi fossero fatti di solo passato e non di presente. Quando le tracce del passato scompaiono, quando la memoria è messa in pericolo, come accade oggi, bisogna allarmarsi. Sono spaventato dal fatto che riusciamo ad assistere alla morte di uomini sui barconi restando inermi, sono preoccupato dalla paura diffusa per la cultura, unico strumento per sviluppare costantemente il proprio pensiero critico. L’arte di fronte a questo non può fare nulla se non raccontare la realtà e spingere alla riflessione».