Viaggiare tra le pietre dell’anima: Consolo e il fascino eterno delle rovine

Mozia, Selinunte, Pantalica, Erice. Tutti scorci, tracce immutabili che si ritagliano uno spazio nelle opere dello scrittore siciliano. Ma il potere suggestivo del mito, del passato ancora vivo, non risiede solo nella loro bellezza. Quanto più nell’opportunità che ci donano. L’opportunità di conoscere noi stessi ogni oltre dimensione. Di riesumare voci, volti e abitudini sepolti dal tempo

Ciò che è sbiadito, prima o poi, riaffiora. Giunge un momento in cui l’eco perduta del passato, lo sprofondo delle sue tracce, reclama il suo spazio. Si pone dinanzi agli occhi, sulle soglie del cuore, e recita la sua inconfondibile cantilena. Che ti culla, ti avvolge, Le chiamano rovine: come se respirassero sospese, su un filo di velluto in procinto di spezzarsi. Come se il tempo le avesse corrose a tal punto da renderle irriconoscibili. Somigliano un po’, in realtà, ai volti scavati dall’età e dal dolore: i loro connotati appaiono mutevoli, talvolta persino stravolti. Eppure qualcosa, proprio sul fondo della loro esistenza, si ostina a luccicare con immutata meraviglia. Fino a che il suo riflesso non abbia diradato l’oscurità in cui era caduto. Le chiamano rovine, come ciò che è destinato a sparire dall’orizzonte dello sguardo, ad invidiare la gloria dei giorni andati. Come qualcosa in cui la vita si è arresa, lasciando che il suo brulicare diventasse silenzio. Ma loro no, a soccombere non ci pensano neanche. Restano in piedi. Senza timore. Elevate su distese, alture, valli e strapiombi dove l’apparenza perde di significato. Dove l’autenticità può ancora riaffermarsi. Dove i piani dell’esistenza si intersecano e si ricombinano in un turbine senza fine. Le rovine, in fin dei conti, siamo noi. Sono le nostre cadute e i nostri momenti di esaltazione; i sentimenti che trascuriamo e i nostri sforzi per rimediare. I ricordi degli anni vicini e le memorie dei secondi lontani. Sono un grande specchio d’acqua in cui osservarsi come individui e come collettività. Le rovine, dunque. Quelle che furono tanto care a Vincenzo Consolo. Quelle che lo facevano emozionare e che, quasi autonomamente, si ritagliavano il loro spazio all’interno delle sue opere. Custodi di un segreto che sta a noi riesumare. E al quale, secondo lo scrittore, è necessario affidarsi per conoscere sé stessi.

Sono mosaici di paesaggi, di imponenti vestigia, i luoghi attraversati da Consolo. Altari avvolti dall’aura del mito, architetture scolpite tra la terra e il cielo, templi sorretti da chissà quale forza vitale. Ci sono i resti di Selinunte in L’olivo e l’olivastro, Mozia in Retablo, ancora ammantata di quel vago lume mediorientale. E poi, naturalmente, la grande necropoli di Pantalica, dove ancora, distinti, i versi delle capre si sovrappongono al fluire dell’Anapo. L’archeologia si fa esperienza mistica, il percorso si fa catarsi. Ed ogni volta le rovine finiscono per rinascere. A restaurarle non sono mani d’uomo, non sono tecniche sofisticate. Ma è la suggestione. La creativa immaginazione che esse suscitano, il movimento dell’anima che assecondano. Pietra dopo pietra, incastro dopo incastro, gli occhi del viaggiatore ripopolano quei luoghi. Richiamano i loro abitanti, le abitudini fissate ormai nell’eternità, le stagioni incatenate ad un eterno ritorno. Ci si sente quasi fratelli, oltre ogni dimensione. Connessi a fantasmi intenti a prolungare la loro esistenza. Risorgono le voci, le storie, gli uomini e le donne senza nome. Il quadro si ricompone, si unifica. Senza un prima, senza un dopo. «Il sentimento di noi viaggiatori – scrive Consolo in La Sicilia passeggiatain luoghi del passato, può resuscitare quelle pietre, dare significato e parola alle pietre, dare, al di là della loro maggiore o minore monumentalità o bellezza, al di là delle grandi imprese che le rovine evocano, il significato dell’umile vita degli abitanti, della trama dei loro affetti, dei loro gesti, dei loro bisogni, delle loro pene e delle loro gioie; può immaginare, ricostruire insomma, tra quelle antiche pietre, il grande miracolo dell’umano vivere quotidiano che ci ha preceduto che dà senso e illumina il presente nostro».

Non è altro che questo, la storia: l’insieme delle speranze elevate sussurrando. L’anonimato a cui tutti dobbiamo qualcosa. Un viaggio mai concluso, al quale i nostri si accodano umilmente. Il racconto nella sua massima espressione. Un cuore che pulsa nel marmo, nella roccia. Nella familiare lontananza di un destino comune.

(Foto in copertina: un tratto della necropoli di Pantalica. Carlo Columba, C.C by S.A 2.0)

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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