Vincenzo Bellini e lo specchio della deriva catanese ne “Il pirata”
Parafrasando il librettista Felice Romani la nuova produzione del Massimo Bellini, che ha debuttato in occasione dell’anniversario di morte del Cigno catanese, è espressione del cattivo gusto dilagante in città e delle sue difficoltà a risollevarsi
[dropcap]«[/dropcap][dropcap]M[/dropcap]i accorsi che per lui ci voleva un altro dramma e un’altra poesia ben diversa da quella che introdotta avevano e il mal gusto de’tempi, e la tirannia de’cantanti, e l’ignavia dei poeti teatrali, e quella più grande ancora dei compositori di musica. Fu allora ch’io feci il primo esperimento del giovane Bellini, e scrissi per esso il Pirata». Era chiaro per Felice Romani che la musica di Bellini richiedesse un approccio diverso, scevro dai soliti meccanismi musicali e artistici e per questo si era impegnato con tutte le sue energie per ottemperare a tale premessa. Una volontà che decretò il fortunato debutto alla Scala del compositore e diede vita a un lungo sodalizio fra i due; delle dieci opere composte dal Cigno catanese sette, infatti, si fregiarono delle liriche di Romani. Di quelle parole resta, oltre alla grandezza di testo e musica, immortali nei secoli, la solida volontà di scardinare ogni immobilismo, lo stesso che da tempo purtroppo avvolge il Teatro catanese a lui intitolato, ultimamente sempre più in balia di manovre e decisioni politiche poco attente al bene comune.
23 SETTEMBRE. Da qualche anno ormai, l’anniversario di morte del compositore è divenuto momento di commemorazione, una forma embrionale di quell’agognato Festival Bellini che forse vedrà la luce il prossimo anno. Eppure, di quel cambiamento tanto sperato, soprattutto in termini di freschezza interpretativa, sembra non esserci traccia in questa nuova produzione firmata dall’Ente etneo. Nonostante il plot de “Il pirata”, assente dal 2001, racchiuda molte tematiche interessanti quali il viaggio e il conseguente naufragio, l’amore tormentato, la gelosia, la pazzia e la morte, la messa in scena è davvero blanda. Il regista Giovanni Anfuso, come da scrittura, ambienta lo spettacolo nel 1200 in una Sicilia in cui prevale il nero della pietra lavica, riprodotta negli squarci di scenografia realizzati da Giovanna Giorgianni, con pareti grezze che ricordano più un tempio che un palazzo signorile e una serie d’inserti sospesi: dal vascello agli stendardi colorati, fino ad arrivare ai bassorilievi dorati, incastonati di pietre multicolor, in cui si raffigura la crocifissione di Cristo. Uniche fonti di colore, insieme al fondale illuminato in maniera del tutto antinaturalistica con intense tinte arancioni, fucsia, blu e rosse e ai costumi di Riccardo Cappello, nei quali prevalgono accanto alle tonalità della terra, il verde intenso dell’abito in velluto di Imogene, quello pastello dell’ancella Adele e il mantello rosso di Ernesto.
Una periodizzazione nel complesso poco focalizzata che restituisce una visione scenica scarna e disadorna. Anche la gestione dello spazio è insolita a causa di una pedana che divide l’area in due porzioni favorendo la staticità di Coro e solisti. Una scelta registica evidentemente voluta, a giudicare dal fatto che in più momenti gli interpreti cantano incorniciati all’interno delle porte del palazzo restituendo in altre situazioni anche goffi tableaux vivants. La costruzione del personaggio è inesistente nei solisti, mancano pathos, trasporto ed emotività sia vissuta sulla scena che trasmessa alla platea, e al di là della resa vocale e delle impervie difficoltà presentate dalle pagine belliniane, lo spettacolo nel complesso pecca di un’idea forte che possa sorreggerlo.
DIS/ARMONIA. L’ouverture avviene a sipario chiuso, una decisione apprezzabile che permette di godere appieno del linguaggio brioso dell’opera in totale contrapposizione rispetto agli avvenimenti che ne seguiranno. La direzione di Miquel Ortega si è rivelata elegante e alquanto rispettosa dell’inconfondibile scrittura belliniana; il Maestro catalano ha guidato la valida Orchestra del Bellini nella quale si sono distinti per tessitura gli archi, i fiati e durante l’assolo del secondo atto, il corno inglese. Bene anche il Coro del TMB, diretto come sempre dal Maestro Petrozziello, che per qualità del suono e capacità interpretative ha risollevato le sorti dello spettacolo. Il baritono Francesco Verna nei panni di Ernesto duca di Caldora ha una vocalità scura, ambrata e una bella presenza scenica grazie alla quale ha mantenuto un buon livello interpretativo durante tutta lo spettacolo. Non possiamo dire lo stesso del suo contraltare il tenore Filippo Adami, Gualtiero conte di Montalto, il quale a dispetto di un timbro chiaro ha avuto non poche défaillance: approssimazione nell’immissione e un suono spesso calante al quale ha cercato di sopperire spingendo con il fiato con un risultato altalenante.
Fermo restando che anche visivamente non avrebbe guastato una migliore caratterizzazione di entrambi i personaggi, la narrazione ha comunque risentito di queste gravi lacune attoriali. Stessa problematica riscontrata nell’Imogene di Francesca Tiburzi: i dissidi interiori e l’azione scenica sono stati relegati in un angolo a favore del belcanto. Quando con “Il sorriso d’innocenza” il soprano porta in scena la sua follia l’effetto è disarmante e impacciato così come i continui mancamenti, resi in maniera tale da apparire completamente slegati dal contesto. A completare il cast: il tenore Riccardo Palazzo, il quale ha interpretato con giusta sfrontatezza il ruolo del pirata Itulbo, Sinan Yan nei panni di Goffredo la cui esecuzione ha risentito di una dizione poco curata e Alexandra Oikonomou nei panni di una discreta Adele, precisa nella prestazione pur senza particolari slanci. Parafrasando Romani, ci auguriamo che il mal gusto de’tempi possa presto essere arginato cambiando letteralmente registro e restituendo nuovo lustro alla desolante situazione artistica e finanziaria in cui versa il melodramma nella nostra città.