Firma i suoi lavori “Argo” e non ama definirsi un artista, eppure il poliedrico disegnatore catanese ha spaziato dalla grafica all’editoria passando per la pittura e la fotografia. Il filo rosso? L’idea che le arti visive abbiano un grande potere narrativo

I lettori de La Sicilia e del Sicilian Post hanno imparato a conoscerlo attraverso le sue “storie visive” firmate ARGO – le illustrazioni che ogni settimana pubblichiamo a fianco dei nostri articoli nella pagina tematica “Sicilian Stories” all’interno del quotidiano – ma l’universo grafico di Turi Distefano è da oltre vent’anni espresso nei più svariati ambiti: dal mondo dell’editoria – nel quale ha curato l’impaginazione di molte riviste, tra cui l’attuale aspetto dell’antichissimo giornale gesuita La Civiltà Cattolica – a quello della brand identity, passando per la comunicazione BTL (Below the line). Il visual designer catanese (guai a definirlo artista, «l’arte è infinitamente al di sopra di me», afferma), ci ha raccontato della sua idea di narrazione grafica e del suo percorso, nato su china e inchiostro e cambiato velocemente con l’avvento del digitale.

I nostri lettori hanno imparato a conoscerti come ARGO. Com’è nata questa tua attività da illustratore? E perché hai scelto questo nome?
«ARGO nasce pochi anni fa quando, superati i quarant’anni, mi sono reso conto che, sebbene tutte le mie scelte professionali – dagli studi artistici fino al lavoro nelle agenzie – fossero state sempre motivate dall’amore per il disegno, non avevo mai affrontato in maniera diretta la questione: provare a fare diventare il disegno in quanto tale un’attività. L’era digitale da questo punto di vista – dopo aver favorito in un certo senso l’unità della mia personalità, che fino a quel punto si era espressa in modo sparso con la grafica, la pittura e le fotografia – mi ha dato l’opportunità di esprimermi sui social (Facebook e Instagram ndr) dove rendo pubbliche le mie illustrazioni. Il nome ARGO è un riferimento alla nave greca e deriva dal fatto che per me l’illustrazione è come un’imbarcazione che inizia un viaggio e racconta».

Che tipo di storie ti piace raccontare?
«Tutte quelle vere. Non nel senso che siano necessariamente successe, ma che dicano qualcosa di profondo, in cui idealmente ciascuno possa riconoscere qualcosa di sé».

Una delle costanti in questi tuoi lavori è la presenza di elementi surreali.
«Si tratta di una scelta funzionale alla natura dell’illustrazione stessa che, a differenza della pittura, non prevede che l’osservatore si soffermi a lungo per immedesimarvici. Bernard Berenson diceva che “l’unico modo di guardare un’opera d’arte è su una sedia comoda”, ma nell’illustrazione ciò che devi comunicare devi trasmetterlo in fretta. Per fare questo l’universo simbolico del surrealismo è un ottimo alimento di cui cibarsi per la creazione di questo tipo di lavori».

 Il tuo percorso professionale nasce a Catania e ti porta a Roma. Quali sono stati, in questo senso, gli incontri più importanti della tua carriera?
«A Catania ho studiato tra gli anni ‘80 e ‘90, dapprima al liceo artistico e poi all’Accademia delle Belle Arti. La città era in una fase di rinascita culturale e sono certo che questo clima mi abbia influenzato positivamente. Intorno al terzo anno di Accademia iniziai a capire meglio la mia strada, ma uno degli incontri più importanti per la mia professione è avvenuto dopo, durante un corso d’arte a Cefalù, col pittore Americo Mazzotta, un vero maestro, che mi ha insegnato come la pittura voglia comunicare un ideale che domina la vita. Successivamente, ho lavorato alcuni anni a Napoli in un centro stampa: un’esperienza formativa perché mi ha dato un bagaglio che raramente vedo nei miei colleghi. Dopodiché sono approdato in un’agenzia della capitale, dove ho trascorso nove anni chiaroscurali ma intensi, occupandomi di vari aspetti: dal fotoritocco alla fase di finalizzazione di vari prodotti grafici. Alcuni anni fa, poi, mi sono trasferito in un’altra agenzia dal know-how molto più ampio, in cui mi sono occupato molto di editoria, in particolare nell’ambito aziendale».

Proprio nel settore dell’editoria, hai curato l’attuale veste grafica de “La Civiltà Cattolica”. Come hai approcciato un lavoro su una rivista che ha quasi 170 anni di storia?
«È stato un lavoro molto appassionante, in primis dal punto di vista umano perché mi ha dato modo di conoscere dei gesuiti straordinari. In secondo luogo perché avere l’opportunità di lavorare, mettendo in discussione ogni singolo aspetto di una rivista che è più vecchia di te di un secolo preservandone l’identità, è stata una vera sfida».

In questo senso, coniugare rinnovamento e identità è una questione di equilibrio?
«Non direi. Si tratta, piuttosto, di saper cogliere la “filigrana” di un’identità ed essere fedele a quella. Mettere in discussione tutto, al di fuori di quest’ultima. Per cui direi che si tratta più che altro di un lavoro d’immedesimazione: quando ho approcciato questo lavoro ho letto parecchio sui gesuiti, a partire dal carisma di Ignazio di Loyola».

 A quali altri lavori sei più legato? E a cosa sta lavorando Turi Distefano oggi?
«Ho un lavoro inedito su Il messaggio dell’imperatore di Kafka di cui sono molto soddisfatto. E vado molto orgoglioso del lavoro grafico per le mostre su Charles Péguy realizzata al Meeting di Rimini e Holy Unexpected per London Enconter.
Dal punto di vista dei lavori in corso, invece, oggi lavoro da freelance e mi occupo di vari aspetti, in particolare di brand identity. Si tratta di un ambito che mi piace molto, perché preferisco la comunicazione non persuasiva alla pubblicità, e ho clienti davvero diversi tra loro».

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