Da quando si è passati dall’immagine romantica del viaggiatore a quella moderna del turista, la migrazione temporanea di masse ha dato linfa non soltanto a un mero business, ma a una vera e propria industria, la più grande e importante del mondo, tanto da poter definire questa epoca come l’età del turismo. Un settore che muove persone e capitali, impone infrastrutture, sconvolge e ridisegna l’architettura e la topografia delle città. Un complesso di trasformazioni che investe un territorio diventato meta del turismo di massa e che Marco D’Eramo, nel libro “Il Selfie del Mondo. Indagine sull’età del turismo” (Feltrinelli editore), accusa di “urbanicidio”, conseguenza «di un’azione coordinata di investitori privati e amministratori pubblici, orientata all’estrazione di profitto dalle porzioni di città a più alto capitale turistico (presenza di monumenti, musei, scorci tipici etc.)». L’affermazione della città turistica implica l’accettazione acritica di ogni conseguenza deleteria per i residenti a vantaggio della ricaduta economica (presunta o reale). Gli urbanicidi hanno cambiato il volto a città euromediterranee (Barcellona, Marsiglia, Venezia ad esempio) e stanno provocando trasformazioni nelle città siciliane a spiccato orientamento turistico, provocando conseguenze irreversibili, una standardizzazione della loro trama economica, sociale e culturale ma anche, in alcuni casi, dei movimenti di resistenza da parte dei residenti. Quartieri assai diversi tra loro sono, impercettibilmente, diventati parchi tematici per turisti puntellati da una miriade di “antiche trattorie tradizionali” o dai “sapori antichi”, street food, gelaterie, yogurterie, rivendite di souvenir. E ovunque, tanto nei quartieri popolari che in quelli “bene”, è un fiorire di B&B e di case vacanze.

La bellezza rischia di scomparire in un’estetica standardizzata. Mercificazione, alienazione, inautenticità sono tre termini da sempre incollati al turismo

MERCIFICAZIONE, ALIENAZIONE E INAUTENTICITÀ. Il leit motiv che unisce tutto è la sicilianità, una risorsa simbolica (inventata) che renderebbe lo spirito isolano unico e inimitabile. Si manifesta un apparato simbolico che mette tutti d’accordo e fa dell’Etna, dell’Arancia, dell’Arancino, della Granita, del Marranzano, del Ficodindia le icone di una neopittoresca sicilianità. Rischiando, invece, di far diventare la sicilianità la parodia di sé stessa. Perché gli attori del quotidiano, in nome di un immotivato primato dell’industria turistica, svendono la città enfatizzando un esotismo fatto di disservizi, disuguaglianza, abbandono. La bellezza rischia di scomparire in un’estetica standardizzata. Mercificazione, alienazione, inautenticità sono tre termini da sempre incollati al turismo. Tutti vogliono approfittare di una congiuntura complessa ma governata in modo scadente, spesso senza regole, e quindi con il rischio di trasformarsi in una nuova bolla economica, destinata a creare disastri nei prossimi anni.

A fronte di un boom d’iniziative legate al food e al turismo lo scenario non cambia. Non si avverte la crescita dei servizi (inesistenti), la cura e la pulizia da parte delle amministrazioni comunali (latitanti), la creazione di attività ricreative e culturali valide. Tutto è lasciato all’improvvisazione

FOOD E TURISMO. Passeggiando questa estate tra le viuzze di Ortigia a Siracusa o nella piazzetta di Marzamemi sembrava di attraversare un suk. Si camminava nel caos. E non per la massiccia presenza di turisti, ma perché strade e piazze erano invase dai tavolini di ristoranti, paninerie, friggitorie, gelaterie. Una vera e propria invasione, disordinata, eccessiva, senza controllo e controlli. Questo boom di iniziative legate al food e al turismo avviene in uno scenario che invece non cambia. A Marzamemi ancora il centro storico resta inspiegabilmente abbandonato, semidiroccato, si passeggia tra incuria, vu’ cumprà, treccinari, venditori di collanine, abiti e souvenir, olezzi di alghe in putrefazione, cani randagi e aggressivi moscerini. A Siracusa si può incontrare qualche scarafaggio e si può confondere la puzza di cipolla con il piscio di un gatto. I rifiuti poi… Non si avverte a Marzamemi, come a Siracusa, la crescita dei servizi (inesistenti), la cura e la pulizia da parte delle amministrazioni comunali (latitanti), la creazione di attività ricreative e culturali valide. Tutto è lasciato all’improvvisazione.

Marzamemi

Fare della Sicilia un brand significa favorire un’economia effimera incapace di ridistribuire ricchezza e di avere una ricaduta occupazionale che non sia precaria se non del tutto sommersa

RIPENSARE IL BRAND SICILIA. Siracusa e Marzamemi sono due esempi simbolo di una cattiva gestione del turismo che è comune in tutta l’Isola. Ci ritroviamo in città poco accoglienti in termini di servizi e organizzazione, mosse da microinvestimenti orientati alla creazione di microrendite, da investimenti opachi che hanno drogato il settore dell’offerta enogastronomica (tant’è che se trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male in città come Roma, Firenze, Napoli e Palermo, oggi è difficilissimo mangiare bene), e da una movida che ha sbaragliato ogni politica culturale degna di questo nome. Fare della Sicilia un brand significa favorire un’economia effimera incapace di ridistribuire ricchezza e di avere una ricaduta occupazionale che non sia precaria se non del tutto sommersa. La svendita deregolamentata dello spazio urbano mortifica, al contempo, anche quei risvolti economico-culturali potenzialmente capaci di dialogare in modo virtuoso con l’industria turistica. Non solo si uccidono le città, ma viene dispersa una identità. Nell’isolotto di Ortigia sono scomparsi macellai, verdurai, panettieri, ciabattini, sostituiti da trattorie, gelaterie, negozi di souvenir e di abbigliamento. La decantata “sicilianità” si trasforma in quel vituperato folklore fatto di luoghi comuni, di “ciuri ciuri” e “vitti ‘na crozza”, di pasta con la Norma, di Montalbano e t-shirt con l’immagine del Padrino, che si mescolano con esotismi d’importazione: hamburger, kebab, hot dog, cocktail. La globalizzazione fagocita il glocal. Le città turistiche si piegano ai modelli imposti dall’industria del turismo, che omologano tutto e fanno sì che il visitatore straniero trovi le sue comodità ovunque si trovi.
«Il turismo – scrive Marco D’Eramo – uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica». Musei e paninoteche, ruderi e boutique di lusso, suoni e luci tra pizze al taglio e ristoranti stellati, isole pedonali, e poi tanti dormitori eleganti per ceti medi. E tra i killer c’è l’Unesco, accusa D’Eramo. L’etichetta di “Patrimonio dell’umanità” è «letale»: dove viene apposta la label, letteralmente la città muore.

I primi segnali di crisi arrivano dal Ragusano che fino a oggi aveva goduto dell’effetto traino della fiction televisiva del commissario Montalbano: meno il 30% di presenze rispetto al 2017

SEGNALI DI CRISI. La barca comincia a prendere acqua. Messe alle spalle le paure per gli attacchi terroristici, si torna a preferire Tunisia, Egitto e Marocco alla Sicilia. Perché meno care (avevamo dimenticato questo aspetto) e più pulite e organizzate. Perché si dovrebbe parlare anche della diffusione di b&b e case vacanze al limite della legalità: in alcune località turistiche balneari, taluni proprietari di B&B vietano ai propri ospiti di accendere il condizionatore di notte, nonostante le camere costino 80-120 euro, mentre la maggior parte delle strutture alberghiere sono inadeguate rispetto agli standard nazionali ed europei, mentre il prezzo è sostanzialmente lo stesso. I primi segnali arrivano dal Ragusano che fino a oggi aveva goduto dell’effetto traino della fiction televisiva del commissario Montalbano: meno il 30% di presenze rispetto al 2017, secondo quanto riporta Ragusanews nel servizio “Turismo a Ragusa: la teoria del tutto e subito e il calo di presenze /Analisi di un fenomeno che sta mostrando dei limiti preoccupanti”.

Petralia Soprana, da poco nominata “Borgo dei Borghi”

Gangi, Montalbano di Elicona, Sambuca di Sicilia e Petralia Soprana, borghi dei borghi rispettivamente nel 2015, 2016, 2017, 2019 secondo il giudizio del pubblico di “Kilimangiaro” (Rai3), sono le avanguardie di un turismo dal volto più umano, del ritorno al viaggio

CI SALVERANNO I BORGHI? Da questa fotografia di una Sicilia stereotipata, fortunatamente restano ancora fuori i borghi, dove è più difficile che si compia un “urbanicidio”. Per vocazione, infatti, i piccoli centri lontani dalle zone turistiche curano l’intimità e l’esclusività della relazione, offrendo una esperienza “unica”, come scrive Fabrizio Ferreri nella introduzione a “Borghi di Sicilia”, volume corredato dalle foto di Emilio Messina e pubblicato da Flaccovio. In questi luoghi fuori dalle mappe e dai percorsi di Lonely Planet si vive «un tipo di incontro che riduce al minimo i filtri, le maschere, i diaframmi e che avviene pertanto nella reciproca “nudità”». Una “nudità” che non combacia con le attese standardizzate del visitatore, capace di resistere all’effimero della finzione (fiction tv). Sono loro, i borghi, a rappresentare la possibilità di una nuova adolescenza del territorio e di un turismo più educato, meno invasivo. Luogo di memoria e di saggezza, punto di partenza alla scoperta del nuovo. Gangi, Montalbano di Elicona, Sambuca di Sicilia e Petralia Soprana, borghi dei borghi rispettivamente nel 2015, 2016, 2017, 2019 secondo il giudizio del pubblico di “Kilimangiaro” (Rai3), sono le avanguardie di un turismo dal volto più umano, del ritorno al viaggio.

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