Oggi l’intrepido ragazzo di Cinisi avrebbe festeggiato il suo compleanno. Nel ricordare le sue gesta, dovremmo cogliere l’opportunità di riflettere su quanto difficile sia fare la cosa giusta in una società che ti invita a non farlo. E su quanto, a volte, per cambiare il mondo serve cominciare da una strada di paese

Fare la cosa giusta è sempre stata la scelta più difficile. Si rischia la solitudine, l’emarginazione, addirittura l’attribuzione di una malsana pazzia. Spesso chi sceglie di lottare deve essere pronto a rinunciare a tutte le sue abitudini, ai suoi affetti, persino ad una parte di sé stesso. Non può esserci guadagno morale senza prima l’esperienza della perdita, per quanto essa possa apparire dolorosa. È il sacrificio degli eroi, di coloro che non prediligono né fama né gloria, né tantomeno la propria incolumità. A questa categoria appartiene di diritto il nostro Peppino Impastato, che oggi avrebbe compiuto 72 anni. La commemorazione di un simile momento non è soltanto l’occasione per celebrare – e non lo si fa mai abbastanza – un personaggio di rilievo assoluto che tante volte è stato, inconsciamente o maliziosamente, messo in secondo piano, ma anche un’opportunità per ribadire l’inalienabile valore del dissenso. Della diversità intesa come irriducibile coraggio del pensare, come capacità di rimanere saldo mentre il flusso più contaminato della realtà tenta di travolgerti.

Non è forse un grande paradosso l’atteggiamento che la società, oggi come ai tempi di Peppino, ci chiede di assumere? Voltare la testa, abbassarla, muoversi sul terreno accidentato delle ombre, sussurrando con circospezione? Gli uomini, quelli che in virtù della loro onestà e rettitudine meritano tale appellativo, sono fatti per la luce e per questo si sentono in dovere di tenere il mento alto, proiettato verso quel bagliore, per quanto flebile, che hanno saputo intravedere. Peppino era così: scavava il marciume senza timore di sporcarsi le mani, gridava le verità scomode e le sbatteva in faccia agli ingenui e ai fuorviati, scuotendo le fondamenta dei loro animi come un incontenibile terremoto. Anche per questo nel 1977, un anno prima della sua morte, fondò “Radio Aut”: perché la radio è pura voce. E la sua era insieme la voce di uno e di tanti, la verità che melodiosamente si incarnava e faceva visita all’ascoltatore più disparato, dal più lontano al più vicino. Perché Peppino gli esempi più evidenti di sordi e contrari alla voce della giustizia li aveva ad un palmo di naso: dai membri della famiglia a quella famigerata casa distante appena 100 passi dalla sua. L’insegnamento di Peppino non potrebbe essere più attuale e necessario per il nostro tempo: ricevere un cattivo esempio non ci assolve dalla scelta di emularlo, non è una giustificazione alle malefatte, un’attenuante cui appellarsi come ipocrita apologia di sé stessi. Peppino ci insegna che il bene non sempre dipende da come te lo insegnano, ma da come la tua voglia di impararlo riesce a dargli forma. Che perfino i legami più stretti, a volte, possono tramutarsi in catene dolorose da dover spezzare sull’altare dell’impegno per un mondo migliore. La vita non vale niente se non ci si sforza di esserne convintamente all’altezza.

Peppino lottava per un mondo migliore, sì. Non ha importanza che il suo raggio d’azione fosse limitato a Cinisi, alle stradine di paese, alla lotta contro un potente con nome e cognome ben noti. Anche questo, nel giorno del suo compleanno, dobbiamo apprendere dall’azione di Peppino: il mondo non si cambia soltanto con i grandi proclami, con enormi promesse di portata globale che puntualmente non vengono mantenute per impossibilità o per pigrizia. La missione decisiva può essere dietro l’angolo, concreta al punto da poterla guardare negli occhi. Forse la realtà, quantomeno la sua parte più deteriore, non può essere stravolta da un giorno all’altro, ma lentamente corrosa, sgretolata, incisa. Forse può essere smontata pezzo dopo pezzo, non partendo dal vertice. Magari cominciando così: a 100 passi da casa propria. Con un grido liberatorio.

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