Il direttore dell’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del CNR, recentemente entrato nel comitato tecnico-scientifico per l’archeologia del MiBAC,condivide le sue idee per fare del nostro patrimonio storico e artistico il motore di uno sviluppo possibile e una risposta per i giovani uomini e donne di cultura siciliani

[dropcap]«[/dropcap][dropcap]D[/dropcap]ifendere e mettere in valore, nella più larga misura possibile, le bellezze d’Italia, quelle naturali e quelle artistiche risponde ad alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Queste le parole con cui Benedetto Croce nel 1920 scuoteva le coscienze del senato del Regno affinché la tutela del patrimonio dei beni culturali diventasse una priorità nazionale. A quasi cento anni di distanza, queste indicazioni sono ancora valide? In che direzione ci stiamo muovendo? Certamente, il recente annuncio da parte dell’amministrazione regionale del finanziamento di nuove opere di scavo e restauro in otto provincie siciliane, lascia ben sperare. Ne abbiamo discusso con Daniele Malfitana, direttore dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali (IBAM) del CNR, e recentemente entrato nel comitato tecnico-scientifico per l’archeologia del MiBAC su nomina del ministro Bonisoli.

Professore, qual è lo stato attuale dei beni culturali in Italia e in Sicilia e quali strade vede per risollevare una situazione che non appare di certo rosea?
«Nel bene o nel male siamo ad un punto di svolta. Nonostante l’enorme patrimonio che abbiamo tra le mani il sistema non riesce a decollare. Perche? Per svariate ragioni, nel settore pubblico le cose tendono a procedere a rilento. Basti pensare alla situazione dell’anfiteatro romano di Catania. Credo l’imprenditoria culturale sia la risposta corretta. Un sistema per cui pezzi del nostro patrimonio siano affidati in gestione a enti privati, seri e di consolidata reputazione, affinché li rendano profittevoli economicamente sia l’unica strada percorribile. Specialmente nella congiuntura economica e sociale in cui ci troviamo, questa è la strada per riconsegnare ai giovani, nel mio settore ma non solo, una speranza di futuro».

«Un giovane che intraprenda oggi un percorso formativo nel settore dell’archeologia deve essere messo in condizione di avere una vita professionale ricca di soddisfazioni, ma perché ciò accada i beni culturali devono aprirsi all’imprenditoria e alla società»

Quindi la valorizzazione dei beni culturali come volano di sviluppo?
«Certamente, ma non solo. La situazione della mia professione, l’archeologo, è paradigmatica: sono un convinto sostenitore dell’idea che debba diventare una figura al pari del medico o dell’avvocato. Perché tutto ciò avvenga è necessario che l’intero sistema cambi. Se la sostanza della professione continua ad essere quella di dirigere scavi, fare ricerche e pubblicare articoli su riviste di settore, manca la base economica per quella figura altamente professionalizzata che ho in mente. Questo è un grave problema: un giovane che intraprende oggi un percorso formativo in questo settore deve essere messo in condizione di avere una vita professionale ricca di soddisfazioni oltre la pura ricerca (tacendo della difficoltà di entrare nel settore pubblico). Perché ciò accada, tanto l’archeologia quanto i beni culturali devono aprirsi all’imprenditoria e alla società».

Quali strategie possono essere messe in atto in questa direzione? Cosa può funzionare?
«Un esempio su tutti è l’efficacia del racconto, il tanto popolare storytelling. Ne ho toccato con mano la forza tentando invano di fare entusiasmare i miei figli per le bellezze custodite a Vienna. Delle mie spiegazioni si sono stufati in fretta ma le guide multimediali fornite dai musei li hanno assorbiti completamente. Questo è un approccio vincente: cosa non potrebbe fare un trentenne siciliano, se messo nelle condizioni di sfruttare il suo sapere in progetti simili? Aprire i nostri tesori, riuscire a divulgare conoscenze è una risposta non solo per i nostri giovani ma per tutti. La cultura attrae, se la si porge nel modo giusto, e un pubblico che inizia ad apprezzare le bellezze che gli sono offerte è incentivato a scoprirne delle altre».

«Lo sblocco dei fondi regionali per otto nuovi cantieri è incoraggiante. La mia speranza è che uguali sforzi verranno intrapresi in altre direzioni, come il lavoro sui magazzini dei nostri musei, che custodiscono grandi tesori»

In tal senso, come ha accolto l’annuncio dello sblocco dei fondi regionali per otto nuovi cantieri in tutta la regione? È un segnale incoraggiante?
«Sicuramente è un’iniziativa meritoria e a lungo attesa a cui va data continuità. La mia speranza è che uguali sforzi verranno intrapresi in altre direzioni. Non dimentichiamoci che altrettanto numerosi sono i tesori custoditi, ad esempio, nei magazzini dei nostri musei: reperti che non soltanto sono inaccessibili al pubblico, ma non sono stati ancora oggetto di studio da parte degli addetti ai lavori. Le grandi campagne di scavo sono sempre una buona notizia, ma la ricerca sui materiali già raccolti necessità di altrettante risorse e attenzioni. La mia speranza è che entrambi gli aspetti della ricerca siano egualmente supportati perché entrambi necessari».

Recentemente, lei è stato nominato dal ministro Boninsoli come componente del comitato tecnico-scientifico per l’archeologia del MiBAC. Come è arrivato a questo traguardo e quali opportunità reca con sé?
«L’avere lavorato come strutturato all’interno dell’Ibam, prima di assumere ruoli dirigenziali, credo abbia aiutato molto. Ciò mi ha dato la possibilità di intervenire sulle criticità che avevo individuato. L’Ibam si snoda su tre sedi, Catania Lecce e Potenza. Per lungo tempo queste hanno operato come entità separate. Ho cercato di risolvere il problema impostando il lavoro dell’Istituto su macro-progetti che richiedessero un approccio multidisciplinare. Tutto questo ha ci ha reso una struttura più coesa, con enorme profitto per nostra attività di ricerca; ma ha anche creato un circolo economicamente virtuoso che ci ha consentito di ampliare le nostre fila con professionalità di cui abbiamo avuto bisogno. Da qui il nostro rapporto con le istuzioni: il comune di Catania, la Regione e non ultimo il MiBAC stesso. Il ruolo del comitato per cui sono stato scelto svolge un ruolo consultivo: ci pronunceremo sui meriti di iniziative e proposte riguardanti aspetti che l’IBAM, in quanto ente di ricerca, sfiora semplicemente; quali la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo delle competenze. Avere la possibilità di agire su problemi di più ampio respiro, portando la propria esperienze e le proprie idee, è una grande occasione».

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