Un’Italia a due velocità anche quando si parla di contagio. Ma come mai? Ne abbiamo parlato con l’autore di uno studio dell’Università di Catania

Che il Covid-19 non si sia diffuso in tutta Italia in egual modo è innegabile. I dati parlano chiaro ed evidenziano una forte prevalenza di casi al Nord della Penisola. Nemmeno l’ondata di studenti e lavoratori – da molti considerati “incoscienti” – che si sono lanciati sull’ultimo treno in partenza da Milano ha, fortunatamente, equilibrato il bilancio. Come spiegare la situazione attuale? «In realtà sono diversi i fattori per cui il virus si è diffuso maggiormente al Nord Italia, come inquinamento atmosferico da PM10, temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, densità di strutture ospedaliere e densità abitativa», dice Andrea Rapisarda, associato di Fisica teorica dell’Università di Catania, sulla base di una ricerca dal titolo “Strategies to mitigate the COVID-19 pandemic risk”. Lo studio è stato realizzato a Catania da un team composto dallo stesso Rapisarda insieme ai colleghi Alessio Biondo del dipartimento di Economia e Impresa, Giuseppe Inturri del dipartimento di Ingegneria elettrica elettronica e informatica, Vito Latora e Alessandro Pluchino del dipartimento di Fisica e Astronomia, Rosario Le Moli del dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale e Giovanni Russo del dipartimento di Matematica e Informatica, insieme alla ricercatrice Nadia Giuffrida del dipartimento di Ingegneria civile e architettura e alla dottoranda Chiara Zappalà del dipartimento di Fisica e Astronomia.

«I primi infettati sono stati la coppia di cinesi in vacanza a Roma individuata a fine gennaio – continua il docente – per cui non è vero che è partita dal Nord. Mentre i primi casi accertati al Nord Italia sono stati intorno al 20 febbraio, quasi un mese dopo. In realtà, quindi, il virus circolava già da gennaio in tutta Italia, ci sono stati casi di polmonite sospetti, ma chiaramente nessuno aveva fatto il tampone e quindi non si sapeva se si trattasse effettivamente di coronavirus».

E, bisogna aggiungere, prima del lockdown ufficiale del Paese in molti si sono spostati da una parte all’altra dell’Italia e non solo, contribuendo sicuramente alla diffusione del virus. «A quello che ci dicono giornalmente, che il Covid-19 si è sviluppato solo al Nord e che il contenimento ha salvato il centro Sud, non crediamo. Se vediamo i contagiati, i decessi e i casi in terapia intensiva in Lombardia, per esempio, ci rendiamo conto che sono più del 50% del resto d’Italia. E tutto questo non si spiega semplicemente con le misure di contenimento».

Dai primi studi si evince una correlazione con l’inquinamento, ma anche per quanto riguarda la normale influenza i dati parlano chiaro. «I casi più gravi e i decessi legati all’influenza stagionale si sono verificati principalmente nelle stesse regioni colpite dal Covid: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto».

«E un ruolo importante giocano anche le temperature, quelle molto alte e molto basse dovrebbero attenuare contagio e virulenza, – spiega ancora – e la densità di popolazione». Questo contribuirebbe a spiegare il caso Lombardia, che è una delle regioni più densamente popolate, con un’estrema mobilità e una popolazione più anziana rispetto al resto d’Italia. «Con dati ricavati dall’Istat e da altre agenzie europee – prosegue il docente – abbiamo creato un indice di rischio per le varie ragioni in base a questi fattori strutturali. E quello che è emerso è che c’è un indice di rischio maggiore per le regioni attorno alla pianura padana».

Ma, tornando invece al Sud, si poteva evitare il diffondersi in Sicilia se non fosse rientrata quell’ondata di persone? «Non è proprio così, tanta gente da noi l’ha avuto e neanche ne è consapevole, o comunque non sono stati casi gravi come quelli del Nord. Proprio perché l’inquinamento, per esempio, danneggia le vie respiratorie e quindi il virus trova una strada più facile, o per altri fattori come la mobilità, la densità di popolazione, i posti letto negli ospedali, dove la gente si recava magari per altri motivi e veniva contagiata. Insomma, le cifre che sentiamo ogni sera al tg, in realtà, sono ridicole rispetto alla reale diffusione del virus in Italia. Il punto è che molti l’hanno avuto ma non se ne sono neanche accorti perché non erano casi gravi».

Dai dati e dai risultati delle ricerche, si può già pensare alla fase due e a come affrontarla? «Credo che con tutte le precauzioni del caso – distanziamento, mascherine e quant’altro – qui al Sud o perlomeno in Sicilia possiamo far riaprire i negozi, cominciare a far rivivere le attività e far ripartire l’economia. Mi sembra plausibile e ragionevole, anche visti i numeri. Le ondate che abbiamo avuto – chiosa Rapisarda – sono state intorno al 9 marzo, se sono servite le misure di contenimento non dovremmo più avere paura. Dobbiamo invece imparare a convivere con il virus per un po’, almeno finché non avremo il vaccino, ricominciando lentamente a uscire e a vivere».

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