«Qualche anno fa abbiamo assistito alla fioritura della città, ma poi pian piano questa sferzata di energia si è affievolita». In occasione dell’incontro con la città organizzato dal Teatro Stabile di Catania, l’attore ha parlato dello stato della cultura in Italia e raccontato la lavorazione del Pensaci Giacomino!

Leo Gullotta si è sempre concesso al suo pubblico con sincerità e affetto, sul palcoscenico ma soprattutto nella vita, ed è per ricambiare questo sentimento che i catanesi hanno partecipato con grande entusiasmo, qualche giorno fa, al secondo appuntamento con gli interpreti della scena organizzato dal TSC. Un pomeriggio fatto di risate, in cui si è parlato di teatro, di cultura e dove a prevalere sono state le connessioni umane, il legame fortemente auspicato dalla direttrice Laura Sicignano tra l’Ente e la città. Il teatro è fatto dagli attori, dalla complessa macchina teatrale ma soprattutto dagli spettatori, a cui con lungimiranza da qualche mese a questa parte si guarda. Ed è proprio allo Stabile di Catania che ha avuto inizio la brillante carriera di Gullotta: «Sono nato artisticamente nel 1961 alla sala “Angelo Musco”, che da qualche tempo non è più dello Stabile ma che è rimasta nel mio cuore. Certo – aggiunge – magari il Comune di Catania avrebbe potuto acquisirla come luogo storico, ma non l’ha fatto. Abitavo al Fortino, quartiere popolare che fa un triangolo con Plebiscito e San Cristoforo, zone cosiddette a rischio, dove però c’erano famiglie sane come la mia. Mio padre era un pasticcere dall’intelligenza viva ed io un ragazzino curioso, che per una serie di eventi si è ritrovato magicamente tra professionisti come Turi Ferro, Michele Abruzzo, Umberto Spadaro e altri meno conosciuti ma di grande esperienza, che mi hanno insegnato molto sia a livello umano sia professionale. Avrò avuto all’incirca quattordici anni ma ero talmente giovane anche fisicamente che tutti mi chiamavano affettuosamente Gullottino. Un’esperienza che mi ha dato tanto e di cui sono particolarmente grato, perché se so qualcosa della vita, del rispetto verso gli altri e del concetto di libertà, lo devo a loro».

Com’era il teatro catanese allora?
«Vivo, gioioso. Basti pensare che si producevano nove spettacoli l’anno e si stava in scena per un mese. E poi c’erano tre ragazzi, Pippo Pattavina, Tuccio Musumeci e Leo Gullotta che il lunedì, nel loro giorno di riposo, d’accordo con la direzione tenevano una serie d’incontri con i giovani curati da Romano Bernardi, durante i quali leggevano l’altro teatro, quello straniero. Questi appuntamenti ebbero talmente fortuna che alle letture dei testi seguì la messa in scena. Oggi invece le cose sono un po’ cambiate, ad esempio c’è un’ignoranza spaventosa da parte della politica, naturalmente l’eccezione conferma la regola, ma l’impressione è che tutto si sia fermato da tempo. Qualche anno fa abbiamo assistito alla fioritura della città ma poi pian piano questa sferzata di energia si è affievolita».

«Molti grandi attori hanno interpretato il professor Toti di “Pensaci Giacomino” offrendo al pubblico la figura di un vecchio prossimo alla morte. Io ho voluto rappresentare un anziano come molti ce ne sono nella società di oggi»

Pirandello scrisse nel 1916 la versione dialettale di “Pensaci, Giacomino!” a cui fece seguire l’anno dopo quella in italiano, un’opera di estrema attualità. Che tipo di lavoro avete fatto sul testo lei e il regista Fabio Grossi?
«Non abbiamo toccato nulla, abbiamo tolto solo due “Voi” che ci sembravano anacronistici. Io non amo le riscritture o le manipolazioni del testo, riscrivere Pirandello o De Filippo, poi, mi sembra una forma di protagonismo assoluta, un’offesa a testi importantissimi. Per il resto abbiamo accorpato i tre atti in un unico affinché l’attenzione emotiva non si perdesse. Questo testo, che mancava dal palcoscenico etneo da 35 anni, è stato interpretato da Sergio Tofano, Turi Ferro, Salvo Randone, tutti però hanno sempre offerto magnificamente al pubblico la figura di un vecchio quasi prossimo alla morte, io invece interpreto un anziano come molti ce ne sono oggi nella nostra società. Dal punto di vista linguistico, inoltre, se leggete attentamente le battute, si può avvertire un sapore dialettale che io ho ripreso, enfatizzandolo».

Osservando la scena è subito evidente il sipario stampato dell’artista Angela Gallaro. L’invadenza degli “altri” la ritroviamo nello sguardo delle sagome, nel chiacchiericcio iniziale e nel modo in cui vengono condizionati i personaggi. Chi sono questi “altri”?
«Sono i giganti della società che ci guardano, ci osservano ossessivamente. Sono le famose maschere in cui si trasformeranno i personaggi, tutti tranne il professore Toti, un grande esempio di umanità di cui oggi abbiamo fortemente bisogno. Inoltre, gli intermezzi fra le situazioni sono raccontati con i versi di Pirandello cantati con un sapore brechtiano, come da cantastorie, che io trovo molto funzionale».

«Talvolta c’è il pregiudizio che Pirandello sia un autore complesso, ma se lo sai leggere e offrire ai ragazzi non è così. Molti studenti sono venuti da me a dirmi che il testo era più chiaro di come loro lo conoscessero»

Quali sono i punti di forza della scrittura pirandelliana?
«Il bisogno di schiaffeggiare continuamente la società. Pirandello sapeva scrivere, su questo non c’è dubbio, un premio Nobel della letteratura che conosceva bene la macchina e il mercato teatrale. Era riuscito a trasferire su carta i suoi fantasmi ma soprattutto era un attento osservatore della società, delle sue contraddizioni, del ruolo della donna, della condizione della scuola e degli insegnanti, del modo in cui l’ignoranza genera violenza. Talvolta c’è il pregiudizio che Pirandello sia un autore complesso, ma se lo sai leggere e offrire ai ragazzi non è così. Molti studenti del liceo che hanno assistito allo spettacolo sono venuti da me a dirmi che era più chiaro di come loro lo conoscessero».

Quali sono gli elementi per fare del buon teatro?
«Questo è un lavoro che si fa solo e soltanto insieme, termine che oggi, in un’epoca di protagonismo e individualismo sfrenato, risulta essere poco convincente. A mio avviso sia socialmente sia culturalmente a teatro da soli non si costruisce niente, il singolo può avere delle idee ma vanno condivise, perché solo se ci abbracciamo l’un l’altro possiamo costruire qualcosa».

«Oggi il 67 % della popolazione non legge. I ragazzi devono farlo molto altrimenti resteranno dei sacchi vuoti»

Il teatro oggi che valore assume nella vita dei ragazzi?
«Il teatro, come la lettura, permette una riflessione verso se stessi. È un modo per stare insieme, giudicare, ridere, piangere ma soprattutto pensare. Oggi il 67 % della popolazione non legge. Questo dato mi dispiace profondamente, leggere è fondamentale, aiuta a crescere, a vivere meglio l’utopia di un mondo migliore. Nelle scuole, poi, si dovrebbero proiettare film importanti e farli seguire da dibattiti; non posso pensare che non si conoscano fatti storici importanti come per esempio la tragedia del Vajont. Quando mi è stato detto: “Studia così saprai guardare meglio le cose”, per me è stato un incentivo. I ragazzi devono leggere molto altrimenti sono dei sacchi vuoti, così una casa senza libri è una stalla».

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