Quest’anno Gianni Rodari avrebbe compiuto cento anni. In tanti lo hanno ricordato per le sue fiabe, le filastrocche, le invenzioni linguistiche e poetiche, la capacità di parlare a tutti. Molti dei suoi libri, nell’anno del centenario, sono stati ripubblicati in una nuova edizione e ci fanno immaginare che se non fosse scomparso prematuramente, nell’aprile del 1980, Rodari oggi sarebbe un bel vecchio dal cuore giovane. Una persona dall’inesauribile fantasia e ricchezza poetica, diremmo.

Di Rodari spesso si dimentica che fu un uomo profondamente radicato nella realtà, animato da un grande impegno civile e politico, trasferito anche in un’intensa attività giornalistica. Ne restano tracce profonde nei numerosi articoli apparsi su “Paese Sera” e in parte raccolti nel volume “Il cane di Magonza”. Per il quotidiano romano, di cui fu inviato speciale, Rodari si trovò a testimoniare l’immane tragedia dell’alluvione di Firenze del novembre 1966, e scrisse dei numerosi giovani lì accorsi a spalar fango, salvare le opere d’arte e alleviare la sofferenza della gente. Tempi in cui la Protezione civile nemmeno esisteva e la solidarietà era tutta nel passaparola, nel cuore e nelle braccia.

Eppure di quei giovani, quelli con la chitarra per intenderci, Rodari scriveva: «Al momento giusto si vede che i capelli lunghi non hanno guastato la loro fondamentale salute morale»

Eppure quei giovani – quelli con i capelli lunghi e la chitarra in mano per intenderci, quelli di cui Pasolini nel 1973 avrebbe detto “il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare” – erano invisi a molti, anche negli stessi ambienti della sinistra. Rodari li guarda con occhi diversi e in un editoriale dal titolo “Leopardi e i giovani” scrive:  «La loro opposizione può esprimersi in forme urtanti ed offensive per il buon gusto: ciò tocca le musiche che preferiscono, le fogge che adottano, gli atteggiamenti di sfida che ostentano. Sono fenomeni di superficie, rituali di generazione, mode. Al momento giusto si vede che i capelli lunghi non hanno guastato la loro fondamentale salute morale. Le cronache dell’alluvione in Toscana e nelle Venezie sono piene di episodi significativi. Migliaia di giovani  si sono prestati con coraggio all’opera di soccorso e di salvataggio».

Nel contempo Giovanni Grazzini, sulle pagine del “Corriere”, quei giovani li appella “gli angeli del fango”, nel celebre articolo del 10 novembre 1966: «D’ora innanzi – scrive – non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats. Perché questa stessa gioventù oggi ha dato un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile. Onore ai beats, onore agli angeli del fango».

Rodari, nel suo editoriale, degli stessi eventi propone una lettura più profonda, che singolarmente sceglie di rivolgere al passato, per interrogare sul futuro. Egli sa che in quei giovani, ora lodati per la generosità e l’impegno, nella quotidianità abitano invece spaesamento e disagio. Perché essi, così pronti a soccorrere nell’emergenza, non si sentono normalmente chiamati a dare il loro apporto alla costruzione sociale, ad esprimere la loro posizione sulle cose importanti, a perseguire le loro esigenze di giustizia e di bellezza.

Rodari usa lo sguardo di Leopardi per intuire l’irrequietezza giovanile nata dall’emarginazione sociale, che avrebbe trovato espressione nei moti studenteschi e di piazza degli anni ’60

L’alluvione, sostiene Rodari, per i giovani in un certo senso aveva rappresentato il loro momento, perché «quando c’è “qualcosa da fare” che richieda slancio, disinteresse, sforzo, è sempre il momento dei giovani». Lancia però un monito che suona attuale: «I guai nascono quando la società adulta, per gelosia o per incomprensione, o semplicemente per incapacità, non chiama i giovani a qualcosa per cui valga la pena di fare: a prendere iniziative, ad assumersi responsabilità in prima persona».

Nella quotidianità, nella routine di tutti i giorni, a scuola come nel lavoro, il giovane viene invece visto come «un minorato senza diritti e senza personalità. Un allievo, cioè un essere di seconda categoria». Rodari assume allora lo sguardo di Leopardi, e con quello sguardo legge con grande acume l’irrequietezza giovanile generata dall’emarginazione sociale, un’irrequietezza che da lì a poco avrebbe trovato espressione nei moti studenteschi e nelle rivolte di piazza. Nel cuore del suo articolo, rivolge ai lettori un invito: «Apriamo lo Zibaldone di Giacomo Leopardi alla data del primo agosto 1820».

Rileggiamolo anche noi Leopardi. Dal 1820 al 2020, duecento anni dopo, scorriamo il testo dello Zibaldone, marcandone le parole e le frasi cui Rodari voleva che prestassimo attenzione. Le aveva riportate in corsivo, ritenendo che potessero davvero illuminare i giorni del diluvio come giorni del giudizio sulla società:

«Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto nè possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia. Ma tolti gli oggetti ai quali anticamente si era rivolto questo ardore, vedete a che cosa li debba portare e li porti effettivamente. L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Frattanto ella esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto… e laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale, e inestinguibile, divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non iscoppi in temporali in tremuoti ec»

«Problemi che noi “buttiamo” in psicologia  Leopardi li “buttava” in politica. Chiediamo ai giovani le “piccole virtù” e giustamente, si ritireranno in un angolino a suonare la chitarra»

Rodari commenta: «Tutto il brano oltre che straordinariamente lucido, appare, al nostro “senno di poi” quasi profetico. Problemi che noi “buttiamo” in psicologia  Leopardi li “buttava” in politica. Parlava ai “reggitori”. Mostrava loro una forza da usare per cose grandi. Chiediamo ai giovani le “piccole virtù” e giustamente, si ritireranno in un angolino a suonare la chitarra. Ma chi li chiamerà alle “grandi utilità pubbliche”, una volta passate le alluvioni, per le quali si sono mobilitati da soli?»

Nel 2016 Susan Glasspool, uno degli “angeli del fango”, intervenendo alla cerimonia commemorativa per il cinquantennale dell’alluvione di Firenze, dichiarava: «Siamo venuti da tante parti nell’autunno del 1966 a Firenze perché sapevamo di fare la cosa giusta. Non ci sentivamo angeli, anche perché eravamo sporchi e puzzolenti». Il 2016 aveva visto L’Italia colpita da un’altra tragedia, il sisma nell’Appennino centrale. Così la Glasspool, dal salone dei Cinquecento degli Uffizi, lanciava anche un suo accorato appello, rivolto ai giovani: «Diventate gli angeli della polvere! Andate nelle zone colpite dal terremoto e aiutate la popolazione». Nuovi angeli, “angeli della polvere”, accorrono ad Amatrice, a Norcia… e ancora spalano, rimuovono macerie, consolano, seppelliscono morti, montano tende, preparano pasti.

La storia si ripete, come i titoli dei giornali. Di fronte alla pandemia del Covid-19, di nuovo vediamo tanti giovani in azione – medici, infermieri, volontari, semplici cittadini – a cogliere “il loro momento”: lasciati quotidianamente fuori dal mondo del lavoro e dimenticati dalla politica, spesso condannati “alla nullità e alla monotonia”, hanno raccolto in massa gli appelli della Protezione Civile, ma innanzitutto si sono sentiti interpellati dalla realtà, dando pronta risposta alle tante situazioni di bisogno che lo Stato e le sue agenzie non riescono più a fronteggiare. Sanno quali sono le “cose giuste”, le cose grandi, e vi si sono per intero dedicati, con entusiasmo ed energia. “Repubblica” in un titolo chiama “angeli del virus” le ricercatrici che hanno concorso a isolare il Covid-19 in Italia. Dal risultato scientifico, così enfatizzato, è facile anche per i giornali passare a documentare le tante storie dimenticate di precariato giovanile, così frequenti nel mondo della ricerca e dell’università.

Il virus, ancora una volta, ci ha rivelati a noi stessi come una società di anziani, dove si fanno sempre meno figli e i giovani non hanno spazio. Una società senza speranza di futuro. Adesso temiamo le ricadute della pandemia sull’economia e sull’occupazione. Si sollecita la politica a fronteggiare meglio la drammatica situazione sanitaria, ma anche a darsi una prospettiva di ripresa e di ricostruzione della società. Proprio oggi allora, occorre ripetersi la domanda di Rodari e di Leopardi: i giovani, una volta passate le emergenze per le quali si sono mobilitati da soli, chi li chiamerà alle “grandi utilità pubbliche”?

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