Allontanarsi dalla propria terra può assumere contorni quasi sacrileghi. Nell’atto del partire, del lasciarsi dietro affetti, squarci di memoria, abitudini consolidate, è insita una profonda drammaticità, un perenne rimpianto. Questa percezione così lacerante, che senza dubbio accomuna tutti i viandanti del mondo, si realizza con un’intensità peculiare nel caso di un isolano. Perché quella dimensione geografica al tempo stesso così ampia e così familiare, così sperduta eppure così centrale, dà come l’impressione di non poter essere mai abbandonata, di essere separata dal resto del mondo da un salto troppo rischioso per essere compiuto. Ma allo stesso tempo, parallelo a questo timore, un impulso si fa strada sotterraneo nelle vene di ogni partente, consapevole che in quell’atto così sofferto e arrischiato si gioca una partita decisiva per la propria vita. È la necessità umana di spostarsi, di trovare la propria identità a contatto con l’ignoto, di salvaguardare il proprio amore per quei luoghi della vita destinati a cedere il passo. Vincenzo Consolo è stato uno dei grandi interpreti di questa declinazione della Sicilitudine: conosceva bene quell’ambivalente oscillazione tra desiderio di contatto e rincorsa al distacco. Quasi un’imposizione del destino, questa onnipresente tendenza all’emigrazione, questa danza della lontananza.

Lo scrittore, infatti, una volta ebbe a dire: «Credo che l’emigrazione sia veramente il cammino delle civiltà. Tutte le grandi civiltà si sono infatti formate attraverso le emigrazioni, a partire da quella greca». La partenza è un’occasione di crescita. Desiderata o sopraggiunta, cercata con disperazione o accettata con rassegnazione, il decentrarsi, il rendersi autonomi, il gettarsi nel flusso più vorticoso della vita, lontani dai sicuri approdi natii, può forgiare l’essere umano per l’interezza della sua esistenza. E proprio in questa chiave Consolo rivaluta il tema dell’emigrazione, piaga che attanaglia il Sud da generazioni. Si può lottare per la propria terra rimanendovi, investendovi tempo e risorse, certo. Ma si può farlo anche da lontano, guardandola con compassione, lasciandola per andare a cercare aiuto altrove. Se una terra fatica a sopravvivere, i suoi figli hanno il dovere di sostenerla, costruendo dall’interno le fondamenta della rinascita, quando è possibile. Se le condizioni non sussistono, però, bisogna prendere in mano quello che di buono ci ha fornito, tenercelo stretto e portarlo orgogliosamente all’esterno come una medaglia. Perché la nostra terra vive anche attraverso noi, si rispecchia nella nostra nostalgia e nel nostro desiderio di tornare. E spera, come noi, in un ricongiungimento futuro, quando viverci sarà meno doloroso. Da qui passa anche la maturità di un intero popolo: dal coraggio di inseguire la felicità ovunque essa si trovi, dal rinunciare a una parte di sé, dalla consapevolezza di poter fare del bene altrove.

Ci sono confini che non cesseranno mai di delimitare il nostro agire. Confini che si estendono ben oltre quelli geografici, confini che portiamo nelle valigie e nel cuore, senza possibilità di cancellarli. La perdita di così tanti giovani, negli ultimi anni, da un lato è certamente una piaga sociale, un’emorragia che va contenuta con decisione, un inevitabile impoverimento che mette a rischio la sopravvivenza di una regione sempre più desertica dal punto di vista culturale. Dall’altro lato, tuttavia, c’è una luce in fondo al tunnel che dovrebbe rincuorarci, una garanzia di vitalità del nostro popolo mai domo. Perché anche nell’atto di lasciare risiede una grande dose di amore: lasciare la Sicilia testimonia una volontà non ancora fiacca, uno spirito combattivo vergine, un desiderio di stravolgere le coordinate della contemporaneità. Abbandonare la Sicilia non è, in molti casi, sinonimo di arrendevolezza, di disinteresse, di una perversa e ferita ripicca contro di lei. È piuttosto un atto stoico, un arrivederci a tempo indeterminato, un tentativo di acquisire gli strumenti utili per tornarvi più ricchi moralmente e più incisivi operativamente. Così, per usare le parole di Consolo, la civiltà siciliana è progredita per secoli e continua a farlo ancora adesso. Magari lontani, magari figli di una mini diaspora. Ma certamente sempre innamorati di quello che hanno perso. Del resto, non sosteneva qualcuno che una cosa ci risulta più o meno cara nell’esatto istante in cui la perdiamo?

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.