«Una città in fiamme come le chiese e i musei che non posso più ammirare. Grida disperate che chiedono di essere ascoltate e sottratte all’invisibilità, le stesse a cui cerco di dare risposta ogni giorno. Le scene finali di Joker mi hanno colpito: lì ho trovato il riflesso del mio Cile». Sull’aereo che lo riportava a Catania per qualche giorno, il 48enne Don Marco Aleo ha rivissuto i dolori della sua casa. O, almeno, di quella che da più di un decennio a questa parte lo è diventata: da quando, infatti, il suo ruolo di prete missionario lo ha condotto fino alla cittadina di Puente Alto, periferia Sud di Santiago. Dai volti dei giovani che quotidianamente affollano i cortili della sua parrocchia ha percepito un forte desiderio di rinascita, ma anche una diffusa tristezza: «Prima di approdare in America Latina – racconta – ero convinto che avrei trovato un popolo estremamente gioioso. Poi ho scoperto che il Cile è uno dei Paesi più depressi al mondo e con un tasso di suicidi fra i più alti». Da quegli stessi volti ha visto nascere la storia dell’ultimo anno. E il sentimento della rivoluzione.

«In Cile si sta verificando un piccolo ’68. Il convincimento generale è che, cambiando le strutture, cambierà anche il mondo e si avrà la felicità. Ma quando un movimento affida questa speranza solo ad un risultato politico, è destinato alla delusione»

I PARADOSSI DELLA LIBERTÀ. Le attività dell’anno sociale sembrano aver dato i loro frutti: ad aprile un plebiscito darà la possibilità alla popolazione cilena di scegliere se riscrivere la Costituzione attualmente in vigore. Ma, a parere del parroco catanese, la questione è ben più complessa nonostante lo slancio dei manifestanti e il prezzo da pagare non indifferente: «Quello che attualmente sta accadendo in Cile – ci spiega – somiglia molto ad un piccolo ’68. Il convincimento generale, proprio come allora, è che il cambiamento delle strutture avrà come diretta conseguenza il cambiamento del mondo e il raggiungimento della felicità. Ma – riflette – come fai a definire rivoluzione la distruzione della metropolitana, unico mezzo di trasporto che consente alle classi sociali meno abbienti di giungere sul posto di lavoro? Come fai a boicottare gli esami di maturità impedendo agli studenti non facoltosi di accedere all’università?». Quasi per uno strano scherzo del destino, perciò, i giovani cileni che tanto inneggiavano al miglioramento del sistema hanno involontariamente contribuito ad acuirne le falle. A cominciare dalla piaga della droga: «Approfittando degli sforzi contenitivi che le forze dell’ordine hanno dovuto dirottare sui movimenti di piazza – rivela Don Marco – i narcotrafficanti hanno riacquistato potere e spazio d’azione. Come nel ’68 o nell’89 dopo la cacciata di Pinochet, quando un movimento affida la propria speranza di gioia solo ad un risultato politico immediato, è destinato ad una delusione scottante».

«Uno dei miei ragazzi una volta mi ha detto che la generazione che oggi sta combattendo è fatta da orfani figli di orfani. C’è una sofferta nostalgia di paternità, un rifiuto delle autorità, compresa la Chiesa, che hanno svolto il loro ruolo in maniera distorta»

IN CERCA DI PADRI. Ma a cosa si deve questa rabbia latente? E cosa può insegnare a chi osserva da lontano la sommossa cilena? Forse, nell’epoca in cui si invocano a gran voce interventi che nascano dal basso, in cui il populismo di stampo aspramente antieuropeista accumula consensi con grande rapidità, in cui concetti come “nazionalismo” e “chiusura delle frontiere” tornano in auge come un perverso contrappasso storico, i risvolti del disagio cileno possono fungere da monito per tutto il mondo: «Una volta – ci svela il missionario – uno dei miei ragazzi mi disse che la generazione che oggi sta combattendo è fatta da orfani figli di orfani. Ciò evidenzia una sofferta nostalgia di paternità, un rifiuto delle autorità, compresa quella della Chiesa, che hanno esercitato il loro ruolo in maniera distorta». Sintomo di ciò, una curiosa – ma vagamente familiare in Europa – polarizzazione dei manifestanti: «Nel movimento di protesta si può trovare un po’ di tutto: dagli anarchici che fanno del caos la loro modalità d’azione a coloro che rimpiangono una figura forte al governo, capace di garantire ordine e sicurezza». Il che inquieta, se si pensa che l’oppressione totalitaria del regime cileno risale ad appena 30 anni fa: «Questa convivenza di conflitto e necessità nei confronti dell’autorità – chiosa Don Marco – nasconde delle pieghe pericolose: la delusione che deriva dal tradimento dei padri ad ogni livello finisce per essere pretesto e giustificazione di una violenza che vorrebbe schiacciare l’ingiustizia e invece finisce per schiacciare le persone stesse. Manca la cultura dell’altro come valore piuttosto che come minaccia, l’inclinazione alla costruzione invece che alla sola distruzione».

«Dico sempre che mi trovo a vivere nel luogo più bello del mondo perché è quello che mi è stato affidato affinché io ne favorisca la fioritura. Solo cambiando il pezzetto di mondo che ci è stato dato possiamo sperare di cambiare le cose»

TI PENSO E CAMBIA IL MONDO. Ma è proprio in queste fratture umane, nella desolazione della malfamata Puente Alto, che la missione di Don Marco acquista la sua sostanza: «Dico sempre che mi trovo a vivere nel posto più bello del mondo. Non perché una qualche forma di cecità mi impedisca di vedere i difetti della realtà che vivo, ma perché sento che è ciò che mi è stato affidato perché io ne favorisca la fioritura, per dare a questa gente l’autorità paterna che non ha avuto». E dire che, un tempo, il parroco militava tra le file del partito radicale: «In realtà – confessa – non ho mai smesso di essere radicale, nel senso di andare alla radice delle cose. Ho solo trovato una risposta diversa al mio desiderio di pienezza». Il suo compito, adesso, è mostrare agli altri che quella pienezza è a portata di tutti: «Credo – conclude – che la missione faccia parte di tutti noi: è donare agli altri ciò che ha appassionato te, mostrare che la felicità non va aspettata da qualche parte, ma che esiste già. Solo cambiando il pezzetto di mondo che ci è stato affidato possiamo sperare di cambiare le cose».

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