The stolen cello, il violoncello rubato. Potrebbe essere il titolo di un romanzo o di un film. E la storia prospettata da quel titolo ha tutti gli elementi per finire sul grande schermo o sulle pagine di un’opera letteraria. Perché racconta di un grande talento e di una altrettanto grande capacità di adattamento e integrazione. Redi Hasa, albanese di 43 anni, l’ha voluta narrare in musica, con il suo strumento: un violoncello rubato che gli fa compagnia da 37 anni.

In effetti non si tratta di un vero e proprio furto. Lo strumento gli fu dato in comodità d’uso dalla scuola quando a 6 anni intraprese gli studi musicali sulle orme della madre, insegnante di violoncello di Tirana. Da quel giorno quel violoncello è diventato il suo amico più fedele, la sua coperta di Linus. È stato cuscino, giocattolo, il palo di una invisibile porta nelle partite di calcio a scuola, compagno di viaggio. «È come un’anima che devi curare sempre, per me è stato un’àncora», sottolinea il musicista albanese. Da quando nel 1998 fu costretto a lasciare la sua terra.

Siamo negli anni Novanta, quando la caduta del Muro di Berlino crea un effetto domino, determinando il crollo di tutti i regimi comunisti, fra cui quello albanese. In Albania la guerra civile divampa dal 1993. «È stato un periodo di blackout, alle sei di sera cominciava il coprifuoco, la scuola aveva chiuso. Una situazione tragica come in tutte le guerre», ricorda con amarezza Redi Hasa parlando da Lecce. «Mio fratello maggiore, che nel ’92 era fuggito in Italia nella prima grande ondata migratoria, mi disse: “Scappa subito, vieni qua e vedi di terminare gli studi”. Dovevo andare via e l’unica cosa che potevo portare con me era il violoncello che la scuola mi aveva prestato».

Redi non arriva nel nostro Paese a bordo di un mercantile stracarico di migranti, come nelle cronache degli sbarchi in Puglia verso la metà degli anni Novanta, immortalate dalle immagini del film Lamerica di Gianni Amelio. «Sono partito con un visto turistico, grazie al quale riesco a iscrivermi a un concorso al Conservatorio Tito Schipa di Lecce». Che vince, ottenendo una borsa di studio per proseguire gli studi. «A quel punto dovevo cambiare il visto», continua. «Sono quindi tornato a Tirana e ne ho approfittato per riconsegnare il violoncello alla scuola. Ma non ce la facevo a rinunciare. Rappresenta la mia storia e, prima di me, quelle di tanti allievi di mia madre. Così l’ho comprato, offrendone un altro, più nuovo, alla scuola».

La cover del disco

Quel violoncello sta ancora accanto a Redi Hasa, in bella mostra nella sua casa di Lecce, dove adesso vive da 23 anni e dove ha riunito la sua famiglia. «Lo porto ancora con me, ogni tanto lo faccio suonare sul palco». Nel frattempo, però, l’artista di Tirana ha acquistato uno strumento più prezioso e pregiato, risalente al 1700, dalla potenza sonora molto forte. Ed è con questo nuovo compagno di viaggio che è stato registrato The stolen cello, «una sorta di autoritratto», spiega. «Il disco racconta la luce e i suoni del mio Paese, i suoi paesaggi, l’albero di ciliegie di casa mia, la montagna dove si andava in vacanza. È un diario intimo e profondo, creato per tornare idealmente alla mia terra e ai miei ricordi: le mie strade, i miei amici, le partite di calcio prive di un vero pallone…».

Un album estremamente lirico, basato unicamente sul violoncello e su piccole alchimie di suono in studio di registrazione. Redi Hasa mette in luce la natura “vocale” del violoncello, strumento che forse si avvicina più di tutti a quello della voce umana, con una storia profondamente personale di speranza e sopravvivenza. Nelle sue composizioni riesce a conciliare Bach con la musica tradizionale balcanica. «Ho studiato musica classica e per un violoncellista Bach è un altare davanti al quale devi inginocchiarti e pregare ogni giorno», sorride. «Però sono spinto dalla curiosità di scoprire le potenzialità di questo strumento. Spesso lo vediamo come un elemento dell’orchestra o di una formazione da camera. Invece, può avere un ruolo solista. Ha una gamma sonora molto aperta, può suonare come un violino, ma anche come chitarra, contrabbasso, viola. Quindi mi piace sperimentare generi diversi, dall’elettronica al rock, dal jazz al minimal e alla balcanica, evadendo dai limiti della classica, che resta comunque un riferimento forte. È bello avvicinare mondi diversi, costruire ponti fra Bach e la musica polifonica del Sud dell’Albania, oppure la taranta salentina, come ho fatto nel progetto Bach is back insieme a mio fratello, che è un pianista classico».

Fra le cinque tracce che nella versione deluxe si aggiungono alle dodici dell’album c’è una versione di With a Little Help from My Friends dei Beatles. «Durante il regime comunista mio padre, che era un bravo ballerino del Teatro di Tirana, realizzava rudimentali antenne tv per vedere cosa c’era dall’altra parte. Per questo in Albania molti parlavano bene l’italiano ed il Festival di Sanremo era popolarissimo. Si guardava di nascosto, perché si rischiava la prigione. Così si sentiva questa musica per noi nuova. Quando ascoltai la canzone dei Beatles cantata da Joe Cocker a Woodstock rimasi folgorato. E mi ripromisi che un giorno l’avrei suonata. Per me è un suono di libertà».

Importante nel cammino artistico di Redi Hasa è certamente l’incontro con il pianista Ludovico Einaudi, maestro concertatore della Notte della Taranta 2010. «Mi ha fatto capire molto di più il suonare insieme, mettendomi al centro di una quarantina di musicisti salentini, nel rispetto della tradizione popolare». Un esperimento così ben riuscito che Einaudi «mi propose di entrare nella sua famiglia». E adesso sono dodici anni che lavorano insieme, firmando dischi e colonne sonore per film da Oscar, come il premiatissimo Nomadland e The Father. «Nel primo caso si sono presi un brano già edito, Seven Days Walking, mentre per The Father abbiamo appositamente composto il brano».

Deluso per non essere entrato nella cinquina delle colonne sonore da Oscar?
«No. Per me, Ludovico e Federico Mecozzi è stata già una vittoria partecipare a una simile esperienza, poter ascoltare le nostre musiche guardando le sequenze del film».

Lei lavora spesso con altri musicisti. Eccezion fatta per Einaudi, quali sono le sue collaborazioni più significative?
«Certamente quella con Robert Plant, per il quale ho registrato quattro brani nell’album Carry Fire. Ci trovavamo entrambi negli studi della Real World di Peter Gabriel a Bath. Plant mi ha ascoltato e gli sono piaciuto. La musica dei Led Zeppelin era un punto di riferimento in Albania dopo la caduta del regime. È stato un sogno incontrarlo e suonare con lui. Poi mi ha arricchito lavorare al fianco di Mauro Pagani, Giovanni Sollima, Goran Bregovic».

Come ha vissuto questo lungo periodo di clausura a causa della pandemia?
«Mi serviva questo momento di pausa. Si va così veloce oggi. Bisogna riscoprire il valore delle piccole cose che ti fanno sentire bene. Ormai non abbiamo più il tempo di fermarci e assaporare le emozioni. Ecco, con The stolen cello ho voluto fermare il tempo, tornare all’infanzia, al passato, e andare avanti».

Andare avanti per Redi Hasa significa pubblicare tre album, tutti nati durante il lockdown: un progetto sui Nirvana che uscirà in giugno, un nuovo disco solista per l’autunno e un altro realizzato insieme con il fisarmonicista salentino Rocco Nigro.

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