Un manto di fuoco che sgorga da un cratere, accendendo l’intero paesaggio circostante di una fumante vivacità; una quiete taciturna e maestosa che si erge agli occhi dei suoi increduli spettatori. Praticamente ogni siciliano di ogni generazione ha sperimentato i due lati complementari dell’Etna, il vulcano attivo più alto d’Europa, sia che ne abbia tastato direttamente gli effetti sia che i racconti tramandati nel tempo lo abbiano reso nella sua mente una figura pressoché mitologica. Amata e personificata, temuta e rispettata, ‘a muntagna – come ancora oggi spesso si sente invocare – è naturalmente sedimentata nella nostra coscienza di isolani, punto di riferimento geografico ed esistenziale senza la cui verticalità ci sentiremmo sperduti nell’orizzontalità senza fine del mare che ci circonda. Un elemento così qualificante del nostro modus vivendi non poteva passare inosservato alla penna dei nostri grandi scrittori, che hanno saputo glorificarlo ma anche affrontarlo a muso duro.

«Trescano a’ piedi tuoi silfi e sirene;/Fremon dentro di te sofi e giganti;/E tu tranquillo di vermiglie arene/E di colti e di boschi ampio t’ammanti». Così recita uno stralcio della poesia All’Etna, che il catanese Mario Rapisardi incluse nella raccolta del 1895 intitolata non a caso Le poesie religiose. Un caleidoscopio di fiorente natura e di mitiche figure sembra animare il vulcano, rappresentante di un tempo lontano e felice, di un’età dell’oro che da lontano compatisce l’inquietudine del poeta e di un’intera terra che può ricordarsi dei giorni lieti soltanto nella bellezza incontaminata della sua vetta, irraggiungibile ma sognata come la felicità perenne. Ma, se per Rapisardi lo sguardo verso l’Etna coincide con un moto positivo dell’anima, ecco che Giovanni Verga svela il lato più drammatico celato dietro le meraviglie della geografia: alle falde del Mongibello, infatti, l’autore dei Malavoglia ambienta due delle sue vicende più drammatiche. Da un lato, la struggente agonia della giovane Maria in Storia di una capinera che assapora solo per pochi attimi il ristoro della campagna prima di tornare nel claustrofobico convento cui è destinata, tanto da scrivere all’amica Marianna: «Se vedessi com’è bello da vicino il nostro Etna! Dal belvedere del convento si vedeva come un gran monte isolato […] adesso io conto le vette di tutti codesti monticelli che gli fanno corona»; dall’altro, il passionevole impegno della contadina Nedda, rimasta vedova e vittima delle ostili campagne piene di pietra lavica, che oltre alla fatica le procurano ferite e paure. Senza contare le tante cronache di Federico De Roberto a proposito del panico successivo alle eruzioni e alle scosse sismiche.

Un mostro che lascia la sua polvere scura su ciò che tocca, ma anche uno spettacolo senza pari, dunque, questo bipolare massiccio vulcanico, così simile agli abitanti che da millenni si avvicendano ai suoi piedi. Simbolo e condanna di un’intera terra, non c’è forse metafora migliore per comprendere la Sicilia nella sua complessità. Perché l’Etna sembra quasi aver determinato il carattere dei siciliani, o forse, al contrario, i siciliani hanno trasmesso qualcosa di loro al vulcano, spesso malinconicamente scorbutico e pungente ma anche calorosamente accogliente. Solo ad elevarsi, l’Etna rappresenta il ciclo vitale di una terra continuamente alla ricerca di se stessa, spesso sepolta sotto una coltre di fumo e cenere così come dai problemi, ma sempre pronta a risvegliarsi, a scuotersi col fuoco di una verace reazione. L’Etna, in fondo, non è che un gigantesco meccanismo di difesa da chi ci vuole sopraffare e un biglietto da visita naturale per chi vuole conoscerci. Ci ricorda ogni giorno ciò che siamo stati e ciò che continueremo ad essere: focosi, impulsivi, veri, infrangibili. Come lui.

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