Il suo nome, menzionato niente di meno che da Leonardo Sciascia in apertura al suo celebre saggio La corda pazza, compare accanto a quello di giganti come Capuana, Verga, Pirandello, Vittorini, Tomasi di Lampedusa. Nel centenario della sua nascita, nel 1972, gli fu concesso un onore degno del Montalbano di Camilleri: in una piazza di Cianciana, suo paesino natale dell’agrigentino, fu eretto un busto bronzeo con le sue sembianze. Come se non bastasse, nel 1989 qualcuno ebbe persino l’idea di intitolargli un asteroide (il cosiddetto 17435 di Giovanni) appena scoperto dall’astronomo belga Eric Walter Elst nei pressi dell’orbita marziana. Alessio Di Giovanni, del resto, fuori dal comune lo era davvero. I suoi contemporanei, a differenza della nostra smemorata epoca, ne erano perfettamente a conoscenza. Persino Pier Paolo Pasolini, appresa la notizia della morte nel 1946, si apprestò a dedicare commosse pagine d’elogio e di ricordo sulla rivista Galleria. Poeta e drammaturgo d’eccellenza, ma anche fine narratore, Di Giovanni traghettò l’esperienza verista oltre il suo naturale termine di scadenza, diventandone l’ultimo e più fedele baluardo. Mentre i suoi predecessori, infatti, avevano scelto di fotografare la dura realtà siciliana attraverso i filtri di una narrazione impersonale e in lingua italiana, il girgentino fu irremovibile nella convinzione che solo il dialetto potesse restituire l’autenticità del sentimento. Una posizione che gli valse qualche critica, certo; ma, probabilmente, anche la consacrazione.

Mediante l’uso della sua parlata natia, Di Giovanni seppe dare vita a qualcosa di originale che, pur traendovi l’ispirazione originale e la sensibilità, travalicò il Verismo per giungere ad uno stile intriso di profonda malinconia, con punte di spiccata religiosità dovute alla sua ammirazione per le gesta di San Francesco. «L’anima siciliana dei personaggi – soleva dire a proposito della sua poetica – emerge soltanto se il linguaggio arriva a dare contezza delle nostre particolarità storiche e politiche. Bisogna, insomma, saper fare pane siciliano con farina siciliana». E tipicamente isolani sono gli sfondi e gli attori che si agitano febbrilmente nei suoi scritti: frati poco raccomandabili in fuga dall’indigenza, vestiti di un saio che intimamente non rispecchia la loro vocazione e ancorati ad una mentalità mafiosa e predona che li porta ad espropriare i più fragili di ogni bene (Lu Saracinu è certamente l’esempio più calzante e noto); famiglie vittime di tragedie legate alla prepotenza patriarcale (come nel dramma Scunciuru); fanciulli stroncati per via del loro amore per la libertà, nelle tante lotte ottocentesche soppresse con la forza. Ma, soprattutto, il tema centrale delle zolfare, della disumanità di una mansione che precludeva a coloro che si immettevano in quegli infernali cunicoli persino il diritto di respirare. Il tema dell’illusione di una vita che si vorrebbe diversa, che tra le picconate nel buio e nel fuoco si consola con le melodie dei cantastorie, appositamente richiesti dai padroni delle miniere per distogliere in parte quei cuori senza futuro dal pensiero ossessivo della fine. L’acre olezzo dello zolfo Di Giovanni lo aveva conosciuto e maledetto tante volte passando in giovinezza per le contrade di Cianciana. Il suo grido di denuncia, come quello di molti altri, era stato puntualmente ignorato. Forse per tale ragione, in una delle poesie più belle e drammatiche del suo repertorio, aveva scelto di rivolgersi a Cristu: «Cu l’arma, cu lu cori ti salutu / Prufeta di l’amuri universali… / Ma tu ‘un rispunni… / Lu mè pinzeri curri pi la terra / E senti e vidi: la rabbia di l’unni / Sutta un timuni / Biancu di spuma, botti di marteddu / Supra un tabbutu, corpa di picuni / Nni ‘na pirrera, / Lamenti di carusi, ddi lamenti / Ca pàrinu suspira, e ‘na prijera / Scura di morti. / (Su pazzi o carzarati?) e misiràbbili / Morti di fami e friddu, e po’ la sorti / Di ddu ‘nfilici / Ca lassannu, a la sira, lu travagghiu / Spinci la manu stanca e malidici / Macari a tia…».

È stato dunque l’amore per la sua terra, in primo luogo, a fare di Alessio Di Giovanni uno scrittore meritevole del riconoscimento sciasciano. La smisurata empatia del suo animo, poi, sintonizzato con le ferite più profonde di un popolo che al suo canto ha affidato lacrime, sangue e preghiere. Quello stesso popolo disperatamente umano e sfruttato, al quale il nostro conterraneo restituì dignità utilizzando il loro stesso linguaggio. Di Giovanni, del resto, non diede mai l’impressione di scrivere dei personaggi, quanto piuttosto di ascoltare delle persone. Di piangere il destino dei suoi fratelli sconosciuti. Privati del nome, sì, ma non del ricordo che il poeta ha saputo custodire.

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