Matthias Stomer, il Caravaggio fiammingo che in Sicilia trovò la sua vocazione
Accade, talvolta, che la creatività vada di pari passo con una insondabile dose di mistero. Che nelle lacune che la storia si è divertita a consegnare ai nostri inconsapevoli occhi da contemporanei, si annidino storie di grandezza che attendono solo di essere svelate. Che traiettorie lontane, fino ad un determinato momento destinate appena a sfiorarsi, si incrocino improvvisamente in un luogo magico ma imprevisto, suggestivo ma a tratti impensabile. Storie di confini abbattuti dalla cultura, di eredità spirituali raccolte lungo il cammino di una vita. Storie come quella del pittore Matthias Stomer, che del mistero, appunto, è stato quasi una perfetta incarnazione. Non soltanto perché persino la veridicità – e la corretta variante – del suo nome è tutt’oggi oggetto di un serrato dibattito, ma anche e soprattutto per la sua vita romanzesca. Cresciuto tra le floride botteghe di Utrecht, nel dorato ed impareggiabile Secolo d’oro, il XVII, della pittura fiamminga, ebbe già, in giovinezza, una sorta di folgorazione: l’amore per lo stile del Caravaggio. E forse mai, l’allievo ideale di un maestro tanto grande ed idolatrato, avrebbe immaginato che l’arte non sarebbe stato l’unico campo di emulazione. Quasi inconsciamente, infatti, Stomer finì per ripercorre anche talune orme biografiche. Orme che lo condussero proprio in Sicilia. Là dove il suo illustre predecessore aveva scritto una parte fondamentale della propria sceneggiatura esistenziale. E dove il protagonista del nostro racconto ebbe modo di sbocciare definitivamente come uno dei più grandi tra i cosiddetti “caravaggeschi”.
Non sappiamo quale fu la ragione che, nel 1640, lo portò ad approdare sull’isola. Ma, ad ogni modo, che si trattasse di un viaggio formativo o di una committenza specifica a cui rispondere, sappiamo che il destino fece la sua parte. Dalle sponde della Trinacria, infatti, Stomer non si spostò fino alla morte, avvenuta esattamente dieci anni dopo. Un tempo sufficiente per costellare le tappe del suo cammino di opere memorabili. Da Palermo a Catania, dalla provincia agrigentina a quella nissena, la drammatica e vivida enfasi delle sue tele accomuna oggi diverse città siciliane. Così come quella poetica profonda, complessa, viscerale, quasi sacrale con la quale raffigurò i suoi soggetti prediletti: le storie della Bibbia e quella della mitologia classica. C’è quasi un’osmosi di intenti, una fraternità compositiva e semantica nella maniera con cui Stomer rappresentò le figure di quegli immaginari apparentemente agli antipodi. Tra Stefano e Seneca, tra la libertà della fede e quella della morale. Tra Sansone, circondato dai Filistei, e il cesaricida Bruto perseguitato dai suoi aguzzini. Simboli di una grandezza che non scende a compromessi con la viltà e la mediocrità del mondo. Di un’integrità trasversale, antica ma non per questo desueta. Tra le pose sistematicamente ricorrenti, dignitose e sprezzanti nell’accettare la propria sorte, fiammeggiano sguardi penetranti, smorfie di dolore strozzate dalla concitazione di un attimo, corpi plastici e pulsanti, innervati di luce fortemente diegetica, sulla scia, naturalmente, dell’insegnamento caravaggesco. Proprio la luce, anzi, nelle tele di Stomer è parte integrante della narrazione. Un fuoco tematico ed allegorico di scene dominate da un poetico e raffinato chiaroscuro.
E non è certo un caso che il pittore fiammingo abbia portato a maturazione l’utilizzo di questa tecnica proprio in Sicilia. La terra delle opportunità e dell’ispirazione, dove è probabile che fosse venuto in contatto con la produzione del maestro putativo. Dove la vocazione di un giovane apprendista giunse al suo più giusto e sperato compimento. Dove vita e arte si scrutano da millenni, talvolta procedendo a braccetto, altre volte tentando di sopraffarsi vicendevolmente. Dove mito, storia e quotidianità si mescolano senza soluzione di continuità. Dove il senso del sacro e dell’inviolabilità dell’esistenza si scontrano con la carnalità e la veracità. Dove tutto, senza saperlo, profumava già – e meglio – dell’anima di quel Caravaggio che ancora non aveva realmente conosciuto.