Acireale, un disco
dai poetici “pizzini”
dei giovani detenuti
Da un laboratorio di scrittura tenuto nel carcere minorile acese l’esordio discografico dell’Orchestra Jacarànda diretta da Puccio Castrogiovanni. Le storie di Manuel, il rapper che ha regalato un suo testo a Ghali, e di Francesco, il poeta «che l’ha combinata grossa», prendono il volo sulle ali della piccola orchestra giovanile dell’Etna. La musica e le canzoni per sentirsi uguali ai coetanei e costruire un nuovo percorso
Chissà se è proprio vero che la musica ti cambia la vita. Lo credeva il grande direttore d’orchestra Claudio Abbado. Anche Manuel crede che la vita possa offrirti una seconda chance per sentirsi uguali ai coetanei e costruire un nuovo percorso. Con la musica e le canzoni. Partendo dal carcere minorile. Questa speranza l’ha affidata a un “pizzino” consegnato a Ghali, che lo scorso 10 novembre ha fatto visita ai ragazzi dell’Istituto penale per minorenni di Acireale. Il rapper milanese, anni fa, per quindici giorni è stato ospite delle patrie galere al Beccaria. «È venuto con la mamma tunisina, prima del concerto al Palasport» racconta Girolamo Monaco, educatore del carcere acese. «È stato molto gentile, la madre ha parlato con i ragazzi maghrebini nella loro lingua, lui ha raccontato la sua esperienza ai ragazzi».
Girolamo Monaco, educatore del carcere: «La partecipazione è libera, ma se scegli di essere presente devi esserci davvero, devi metterti in gioco. Ci siamo resi conto che la quotidianità di questa esperienza allenta le tensioni tra i ragazzi»
MANUEL E GHALI. A Manuel piace Ghali, «anche se preferisco il rap vero, quello di Marracash». Meglio il rap «perché il trap non dice un cazzo, mi scusi il termine» ride arrossendo. Manuel, invece, ne ha da raccontare. «A Ghali ho dato un mio testo, mi ha detto che ne terrà conto per il suo prossimo disco». Nel frattempo si accontenta di cullare il suo sogno ascoltando la Piccola orchestra giovanile dell’Etna Jacarànda suonare “Quattru” su un testo scritto da lui.
“Quattro, come gli angoli del mondo. Quattro, come le mura intorno a me. Quattro, come terra, acqua, fuoco e vento. Quattro, i pilastri della mia vita”. Quattro, come gli anni che Manuel deve scontare a causa della somma delle condanne per una serie di piccoli reati. Il ragazzo di Milazzo è un po’ la mascotte dell’Istituto. Ha 22 anni, «ma come nel caso di altri ragazzi le linee ministeriali suggeriscono di tenerli qui, piuttosto che trasferirli in un penitenziario fra gli adulti, dove molto probabilmente avremmo rischiato di non rimetterli sulla giusta strada», spiega Monaco. Compagni di disavventura di Manuel altri diciassette ragazzi tra i 18 ed i 24 anni, tre dei quali nordafricani. Sono lì per reati contro il patrimonio, furto e rapina, spaccio, violenza, omicidio, violazione delle norme sull’immigrazione.
Tutti in tuta e scarpe da ginnastica, convivono dietro le sbarre in un ambiente quasi familiare. Il carcere, diretto da Carmela Leo, è ospitato in un antico convento: sembrerebbe una residenza di lusso, se non fosse per le grate alle finestre, le porte blindate all’interno che si aprono singolarmente, gli ambienti asettici e freddi e il divieto di introdurre telefonini. Tabù anche internet. Ci sono una scuola, una discreta biblioteca, laboratori di cucina e ceramica, corsi di pittura e di scrittura, e c’è la possibilità di lavorare fuori dal carcere. «Due di loro curano la vigna di proprietà del Parco dell’Etna» sottolinea Girolamo Monaco, animatore di diversi laboratori che si sono conquistati premi: «Attività che svolgiamo tra grandi difficoltà per gli esigui finanziamenti del Ministero. Dobbiamo confidare sul volontariato». «Spazi di umanità» definisce questi corsi di scrittura l’educatore dell’Istituto penitenziario minorile. «È un momento per potersi raccontare – spiega -. La partecipazione è libera, ma se scegli di essere presente devi esserci davvero, devi metterti in gioco. Ci siamo resi conto che la quotidianità di questa esperienza allenta le tensioni tra i ragazzi». A uno di questi corsi, intitolato “Il peso delle parole”, ha aderito l’Orchestra Jacarànda. Un insieme di oltre una dozzina di ragazzi, in continuo movimento, diretto e coordinato dal “lautaro” Puccio Castrogiovanni per l’Associazione musicale etnea, il cui deus ex machina Biagio Guerrera vorrebbe trasformare questa esperienza in una istituzione.
Puccio Castrogiovanni: «Le canzoni sono nate dai temi sviluppati dai detenuti. Sono uscite storie legate alla loro vita e alla loro condizione di detenzione. Non avendo avuto alcuna scolarizzazione, possiedono un vocabolario ristretto, dimostrando tuttavia di avere uno spiccato dono della sintesi»
CANZONI SU TESTI DI DETENUTI. Manuel, uno spilungone dinoccolato, tutto ossa e nervi, dalla pelle abbronzata e con i capelli corti, e i brufoli che lo collocano ancora nella fase adolescenziale, ha gli occhi che brillano di festa. Anche per i suoi compagni è un giorno particolare. C’è musica sul piccolo palco di legno del carcere. L’Orchestra Jacarànda presenta il suo album di debutto, frutto di quel laboratorio al quale molti di loro hanno preso parte. «Le canzoni sono nate dai temi sviluppati dai detenuti» spiega Puccio Castrogiovanni. «Partendo da una lettera dell’alfabeto, bisognava scegliere tre parole, attorno alle quali scrivere. Sono uscite storie legate alla loro vita e alla loro condizione di detenzione. Non avendo avuto alcuna scolarizzazione, possiedono un vocabolario ristretto, dimostrando tuttavia di avere uno spiccato dono della sintesi».
Francesco conserva ancora come un tesoro il cartoncino che consegnò quel giorno a Puccio Castrogiovanni. «Sopra – ricorda il musicista – c’era una specie di haiku. Scriveva del suo stare in carcere e di quello che gli mancava, ovviamente la libertà».
L’HAIKU DI FRANCESCO Dai racconti emergono la paura, il senso di ingiustizia, la fragilità e la voglia di pagare per i propri errori per poter poi ricominciare. Quelli che all’apparenza sembrano scarabocchi, vengono rielaborati, tradotti in siciliano e trasformati in testi per essere adattati alla musica. Tutti tranne uno. La poesia di Francesco, un ragazzo di 24 anni di Adrano che dietro le sbarre ci deve restare per un altro po’. «L’ho fatta grossa», ammette abbassando gli occhi. Nessuno dei detenuti ha voglia di parlare del passato, preferisce pensare al dopo. Ed è davvero difficile credere che dietro quel volto innocente, che neanche un accenno di barba riesce a far diventare adulto, e a quel ragazzo timido ed educato che scrive poesie si nasconda un omicida. «La rissa, l’aggressione, il diverbio che degenera possono essere quotidianità» sottolinea Monaco.
Francesco conserva ancora come un tesoro il cartoncino che consegnò quel giorno a Puccio Castrogiovanni. «Sopra c’era una specie di haiku, quei componimenti antichi giapponesi che esprimono un concetto o una emozione con pochi termini» ricorda il musicista. «Una ventina di parole appena, con le quali esprimeva la confusione che aveva in testa. Scriveva del suo stare in carcere e di quello che gli mancava, ovviamente la libertà». Sono nate così una decina di canzoni che fanno parte di un album che l’Orchestra Jacarànda ha voluto presentare in anteprima nel luogo dove è stato concepito.
Una sigaretta veloce prima del concerto, poi Manuel si siede incurvato con il mento appoggiato sulla mano. Attento, ascolta quei brani cantati in siciliano, frutto di contaminazioni musicali. «Io devo dire che non lo conosco bene il dialetto» confessa. «La musica popolare, quella che fanno loro però mi piace, è intensa», commenta. Anche se loro, i ragazzi in tuta, amano altro – Laura Pausini, Biagio Antonacci, il rap, i neomelodici, Gigi D’Alessio «che ci ha regalato una batteria» – oggi l’attenzione è tutta per la musica etnica dell’Orchestra Jacarànda. Alle voci e agli strumenti di quei loro coetanei hanno affidato il compito di fare uscire da dietro le sbarre le proprie storie, i propri sentimenti. E le speranze.
Quello che inizialmente doveva essere un laboratorio di musica d’insieme oggi è diventato un’orchestra, attorno alla quale ruotano molti musicisti
L’ORCHESTRA JACARÀNDA. «Quello che inizialmente doveva essere un laboratorio di musica d’insieme è diventato un’Orchestra» sorride Castrogiovanni che si è buttato anima e corpo in questo progetto. «È la mia eredità» si emoziona. «Sono tutti diventati amici tra di loro. Non s’incontrano soltanto per suonare» continua il “re del marranzano”. «Ci sono anche i miei figli». Francesco e Sara che non ha potuto partecipare all’evento perché prossima al parto. E poi ci sono Alessandra Pirrone, Simone Ardita, Benedetta Carasi, Luca e Riccardo Conte, Giuliano Ursino, Gabriele Ricca, Andrea Mirabella e Alessandro Pizzimento, che Castrogiovanni ha forgiato a sua somiglianza. «Ma attorno all’orchestra ruotano tanti altri ragazzi, bravi musicisti che in questi giorni partecipano a stage in Spagna o in Inghilterra, come Giulio Matheson, Giuseppe Sapienza, Daniele Giustolisi e Luca Bordonaro» tiene a sottolineare il maestro. Ragazzi tra i 18 ed i 25 anni che suonano con grande professionalità e perizia, mantenendo lo spirito ludico della loro età; con grinta e leggerezza. Portando nella musica dell’Orchestra i propri gusti musicali, dall’elettronica minimalista di Thom Yorke, amato da Benedetta, alla classica, passione di Alessandro, studente modello del Bellini. Hanno cominciato con la rilettura delle canzoni di autori siciliani contemporanei, poi le prime promettenti prove di composizione, adesso il debutto discografico dal forte impegno sociale.
Francesco non nasconde la sua felicità quando viene chiamato sul palco a leggere il suo “pizzino”: «A cunfusioni pigghia u so postu / Vinci, / Propriu comu successi intra a me testa / Manca a quieti intra e fora»
STORIE DURE. Sul palco s’intrecciano vite e storie di chi sta dentro e fuori il carcere, trovando punti in comune in “Porti insirrati”. Testi asciutti, duri, malinconici, commoventi, stemperati dal suono di una zampogna, di un flauto o di un canto femminile. Quando è il turno della sua canzone, “Quattru”, Manuel si fa serio. Era stato invitato a unirsi ai Jacarànda per improvvisare un suo rap. Un po’ l’emozione, un po’ il rispetto per gli amici dell’Orchestra, non se l’è sentita. Ascolta raggomitolato nella sua tuta blu notte, senza mostrare emozione, sfuggendo ai complimenti. Lo tradiscono i suoi occhi grandi e scuri. Ridono, sprizzano gioia. La stessa felicità che non riesce a nascondere Francesco quando viene chiamato sul palco a leggere il suo “pizzino”: «A cunfusioni pigghia u so postu / Vinci, / Propriu comu successi intra a me testa / Manca a quieti intra e fora» recita.
In “Talìo fòra” un detenuto racconta di aver sentito in sogno il profumo del caffè della madre: «Rapu l’occhia, e un sorriso mi rimase stampato». “Munnu persu” arriva a tempo per smorzare l’emozione. Si balla. Musicisti sul palco, detenuti, direttrice, educatori e ospiti in platea, tutti vengono coinvolti dalla frenesia del ritmo. Nel finale, a grande richiesta, sale in cattedra il maestro Puccio Castrogiovanni, che fino a quel momento si era limitato a seguire i suoi allievi con gli occhi lucidi e con il sorriso sulle labbra. Alla chitarra coinvolge i giovani detenuti nel coro di “Malarazza”, desiderio e voglia di riscatto e rivincita che si tramanda da secoli. Poi tutti in fila dietro ai tamburi e in cerchio per ballare. Come in una sorta di rituale. Per divertirsi, fare casino, per riempire il silenzio, per scacciare incubi e paure.
Manuel, eroe per un giorno, saluta tutti alla fine del concerto. Fa le prove da star. «Ci vediamo a XFactor?». «Talent? Noo» si schermisce sorridente. Come spera l’educatore Girolamo Monaco («vorrei altri Ghali»), Manuel sogna di tornare un giorno per raccontare la sua esperienza. Libero. Da rapper, magari.