«In un contesto culturale in cui abbiamo secoli e secoli di storia alle nostre spalle, il terreno è come un contenitore: sta a noi guardarci dentro per scovarne il contenuto»: con queste parole il professore Sebastiano Imposa, associato di Geofisica applicata e responsabile del Laboratorio di Geofisica Applicata presso l’Università degli Studi di Catania, chiarisce al Sicilian Post, rivolgendosi in particolare a chi non è esperto del settore, quale ruolo abbia la geofisica applicata nel momento in cui si portano avanti degli scavi archeologici.

UNA SCOPERTA PRIMA DELLA SCOPERTA. Partiamo da un episodio di qualche settimana fa, ovvero dalla notizia di alcuni nuovi ritrovamenti nell’area archeologica di Akragas, nella Valle dei Templi di Agrigento, a nord della Plateia I-L. Nello specifico, si è trattato dei grossi blocchi di un muro in calcare di epoca classica o ellenistica che delimitava un’area religiosa, che di fatto però erano stati scoperti prima ancora di venire alla luce: in una fase precedente rispetto agli scavi più invasivi, a individuare i blocchi erano state proprio le più recenti tecniche geofisiche, grazie a uno studio nato dalla collaborazione fra l’Università di Bordeaux (la quale da anni opera già nell’area girgentina) e quella etnea. Come ci racconta Imposa, l’operazione è il risultato di una «cooperazione tra atenei e dipartimenti diversi, dall’ambito scientifico a quello umanistico, in cui ognuno ha messo a disposizione le proprie competenze per raggiungere un obiettivo altrimenti impossibile».

«Nel terreno viene immessa della corrente elettrica: quando il suo livello di resistività subisce una variazione, capiamo che la corrente ha incontrato un ostacolo, un contenuto diverso rispetto a quello del terreno contenitore, e cioè un possibile reperto»

DAL CONTENITORE AI SUOI CONTENUTI. Come si può pensare, d’altronde, di riuscire a identificare dei reperti di questa portata? Ebbene: come anticipavamo, il merito è fra le altre cose della geofisica applicata, «una disciplina trasversale, che trova applicazione in geologia, architettura, ingegneria, agronomia e archeologia, e che tramite dei procedimenti specifici per ognuno di questi settori ci fornisce un riscontro tanto affidabile quanto poco invasivo». Nel caso specifico delle indagini archeologiche, per esempio, è stata condotta una prospezione elettromagnetometrica con successive indagini geolettriche multielettrodiche 2D, che Imposa ha così descritto in termini più semplici: «In sostanza, le ricerche vengono eseguite misurando dei contrasti: nel terreno viene immessa della corrente elettrica e, quando il suo livello di resistività subisce una variazione, capiamo che la corrente ha incontrato un ostacolo, un contenuto diverso rispetto a quello del terreno contenitore. È allora che intuiamo di esserci imbattuti in qualcosa».

UN RIGOROSO METODO DI INDAGINE. Un solo esame, però, non basta: «In casi simili non possiamo considerare sufficiente una sola risposta e formulare un’interpretazione univoca. Il nostro compito è condurre poi ulteriori indagini, a ripetizione, su una vasta area circostante a quella esaminata. Si inizia a maglie larghe, per poi infittire sempre di più la trama e capire in quali punti e a che profondità occorra scavare per riportare a galla i reperti». Dimensionare, pianificare, acquisire, esportare e interpretare: sono questi, quindi, puntualizza Imposa, gli step da seguire prima di avviare qualsiasi scavo. «La geofisica applicata consente così di evitare inutili dispendi di tempo e denaro, offrendoci la garanzia di avere a che fare con un’area archeologicamente interessante prima di invaderla scavando», sottolinea il docente.

«Possiamo applicare la geofisica anche nella zona di Catania vecchia, anche se con un metodo di indagine differente, visto che il suo aspetto geologico caratterizzato dalla presenza della pietra lavica si discosta molto dal suolo di calcarenite di Agrigento»

DALL’ARCHEOLOGIA ALL’ARCHITETTURA. Una disciplina che peraltro, lo dicevamo già, nell’ambito dei beni culturali trova applicazione non solo nel settore archeologico, ma anche in quello architettonico: «Abbiamo sfruttato la geofisica applicata per conoscere lo stato di conservazione di edifici barocchi quali il duomo di Ragusa, il castello di Maniace di epoca sveva, l’ex Monastero dei Benedettini di Catania e la celebre Villa Cerami, sempre nel capoluogo etneo». Dopotutto, non è un mistero che a Catania ciò che si cela sottoterra sia ben più imponente di quanto riusciamo a vedere a occhio nudo. A confermarlo è lo stesso Imposa, che poi però specifica: «Finora per il sottosuolo della città non abbiamo ricevuto alcun incarico, ci occorrerà un accordo con le varie sovrintendenze prima di procedere. In ogni caso, possiamo pensare di applicare sì la geofisica anche nella zona di Catania vecchia, anche se con un metodo di indagine differente: il suo aspetto geologico caratterizzato dalla presenza della pietra lavica si discosta molto dal suolo di calcarenite con cui abbiamo lavorato ad Agrigento, il che dimostra che la Sicilia è una terra variegata ed eterogenea anche da questo punto di vista».

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