Derrick de Kerckhove: «Il virus non cambia solo come ci abbracciamo»
«La paura ha sempre due effetti, uno divisorio e uno coesivo. Se questo periodo durerà davvero un anno e mezzo, cambieranno le maniere di relazionarci: si intensificherà l’uso della rete a discapito dell’interazione face-to-face. Ma anche se il lockdown finisse entro giugno e tornassimo ad abbracciarci, lo faremmo in modo diverso: continuerà in parte il sospetto del corpo dell’altro». Ci sono eventi che ci pongono di fronte a un cambiamento repentino della nostra esistenza, ma questa è la prima volta dal dopoguerra che a essere stravolta è la vita dell’intera comunità. Ne abbiamo discusso con il sociologo belga naturalizzato canadese Derrick de Kerckhove, già allievo di Marshall McLuhan e oggi direttore scientifico dell’Osservatorio Tutti Media / Media Duemila.
In un recente discorso alla nazione, il Presidente Conte ha citato Norbert Elias spiegando che la forza del nostro Paese sia nell’essere una «comunità di individui». Perché un sociologo? E perché proprio lui?
«I sociologi studiano la società nella sua complessità. Elias, esperto di civilizzazione, ha posto la persona al centro dell’operazione sociale e ha spostato l’attenzione sull’emozione. Io credo che sia importante capire quale ruolo questa giochi sia nella società sia nella rete».
Può spiegarci meglio?
«Internet fa circolare le emozioni velocemente come fa il sistema limbico nel corpo umano. Per me la rete è un sistema limbico sociale e risponde al bisogno umano di condividere emozioni. Secondo la stessa logica, anche la diffusione delle informazioni reagisce alla domanda emozionale: media, social media e governi amplificano il nostro attuale stato di paura. Tutti traggono profitto dal contenuto emozionale delle notizie odierne. È per questo che ho sostenuto che siamo al punto di incontro fra natura virale dell’informazione e natura virale del contagio. Il coronavirus è anche una malattia della comunicazione».
«Il rischio è che finita la pandemia gli stati europei saranno tentati dal mantenere un potere di controllo, mentre noi saremo abituati a essere spiati»
Spesso si pubblicano articoli senza considerarne l’impatto in una società in stato di emergenza. Stiamo provando a combattere la viralità del contagio, ma come possiamo difenderci dai rischi della viralità dell’informazione?
«Serve una rifondazione dell’educazione, ben più radicale di quella della sanità. La responsabilità dei media ufficiali, che vanno distinti da blog e social, è più grande che mai in tempi di paura: devono garantire la verità delle notizie, ispirare un certo modo di rispondere ad esse improntato sulla moderazione e assicurare coesione sociale. Il Guardian ci sta provando ma non vedo l’equivalente né in Francia né in Italia, a parte Internazionale. In Paesi come gli Stati Uniti dove i mezzi di comunicazione sono molto controllati è ancora più difficile e ciò fomenta panico».
In passato lei ha definito la forma-Stato un hardware vecchio. È possibile che, invece, da questa emergenza ne esca rinforzata?
«In un certo modo sì, perché il potere statale è l’unico capace, per le sue infrastrutture politica, giuridica ed esecutiva, di organizzare tenuta sociale intorno a questioni urgenti. Il rischio è che finita la pandemia gli stati europei saranno tentati dal mantenere un potere di controllo, mentre noi saremo abituati a essere spiati. Mentre l’etica cristiana ci educa all’autonomia di giudizio, il coronavirus rafforzerà la tendenza a essere guidati dall’esterno. In generale è un effetto irresistibile della trasformazione digitale. Il prossimo regime politico potrebbe essere designato dai metodi algoritmici dei social credits cinesi».
«Abbiamo già barattato una quantità di esperienze concrete che avevano per noi dimensione metafisica. Ora è l’occasione di riflettere sul valore della vita e di ripensare la società»
In cos’altro potrebbe cambiarci il momento che stiamo vivendo?
«La conseguenza più desiderabile sarebbe la coesione dell’umanità di fronte ai pericoli. In quel caso ci doteremo, insieme a un sistema sanitario molto più efficiente e a un sistema educativo rifondato, di un’accresciuta consapevolezza ambientale. Questo virus, infatti, ha reso evidente che siamo globali e non locali. È la prima volta che abbiamo l’obbligo di considerarci tutti dello stesso spazio, di sentire che quello che succede in Thailandia o in Sud America pertiene al futuro di tutti. Ma dovremo stare attenti a non cedere all’altro effetto della paura: la divisione».
Costretti in casa, come possiamo dare spazio ai bisogni metafisici?
«Abbiamo già barattato una quantità di esperienze concrete che avevano per noi dimensione metafisica – come il cinema, il divertimento, il conforto sociale – con rete, schermi e Netflix. Per quanto riguarda altre – come Bungee jumping, passeggiate in montagna, concerti, volontariato, visite museali – è penoso dovervi rinunciare, ma le riprenderemo con piacere particolare non appena il lockdown finirà. Ora è l’occasione di riflettere sul valore della vita, di ripensare la società che abbiamo sempre dato per scontata. Ne abbiamo l’obbligo. Il pericolo ci fa vedere le cose più intensamente. Questa è la dimensione metafisica di adesso».