In occasione di uno dei sempre più apprezzati “Preludi all’Opera”, studiati per avvicinare il pubblico alle mises en scene, la professoressa Seminara, il musicologo Montemagno e il regista Vaccari hanno presentato la celebre opera composta da Giordano, su libretto di Illica, che debutterà il 30 ottobre al Teatro Massimo Bellini

Non si può vivere la dimensione teatrale solo come mero intrattenimento, arrivare preparati alle varie mises en scene è un’esigenza che la molteplicità di pubblici odierni chiede a gran voce e a cui i teatri rispondono ormai con prontezza. Potremmo ascriverlo all’interno della strategia del più fantasmagorico Audience development ma “Preludi all’opera”, appuntamento fisso che da ben undici anni precede la messa in scena degli spettacoli lirici al Teatro Massimo Bellini di Catania e coordinato dalle docenti di Musicologia Maria Rosa De Luca e Graziella Seminara, è diventato nel tempo una costante per lo spettatore che vuole essere introdotto con consapevolezza alla dimensione musicale e testuale dell’opera. È un modo anche per comprendere al meglio i meccanismi complessi che stanno dietro uno spettacolo e sviluppare una visione critica. Potremmo parlare a lungo del modo in cui dal secondo dopoguerra in poi il pubblico si sia modificato o di come ai giorni nostri sempre più spesso ci si trovi davanti parterre disarticolati, ma vorremmo concentrarci su questo modello virtuoso che ogni volta vede una grande partecipazione di uditori e coinvolge oltre a registi, direttori e cantanti, studiosi e musicologi provenienti da tutta Italia.

UN DRAMMA CHE COLPISCE. Il 30 ottobre debutterà a Catania Andrea Chénier, l’opera più conosciuta di Umberto Giordano e anche la più rappresentata, la stessa che lo scorso 8 dicembre ha aperto la stagione scaligera a Milano. A moderare l’incontro, la professoressa Seminara, la quale insieme al regista Giandomenico Vaccari e al musicologo e critico teatrale Giuseppe Montemagno, ci ha condotto passo dopo passo ad analizzare ogni aspetto della recita. Umberto Giordano fu insieme a Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Cilea e Franchetti uno degli esponenti della Giovane Scuola. Foggiano di nascita, napoletano di adozione è con l’opera “Mala vita” che si fa notare dall’editore Sonzogno, acerrimo rivale di Ricordi, che dal 1883 aveva indetto un concorso per giovani musicisti al fine di ravvivare la scena musicale nazionale. Rossini, Bellini e Donizetti erano, infatti, già morti, rimaneva solo Verdi, ormai anziano, per cui urgeva nuova linfa. Come racconta il professore Montemagno: «È il giovane Victor Hugo, nel 1819, il primo letterato a occuparsi dell’opera di Chénier, il quale per la sua fine prematura diverrà una sorta di mito. Luigi Illica all’inizio del 1890 curò poi un libretto, che prendeva le mosse dal poeta realmente esistito, destinato a Franchetti, il quale però non l’aveva ritenuto all’altezza della sua musica. Fu così che Sonzogno ne affidò la realizzazione a Giordano, che debutterà alla Scala il 28 marzo 1896». L’opera, che s’inserisce all’interno della corrente verista, più che un melodramma è un dramma di ambiente storico. «La struttura – prosegue il professore Montemagno – non è in atti costituiti da una caratura ampia bensì in quadri, quattro; immagini brevi in grado di colpire lo spettatore. Osservando il frontespizio – continua – è lo stesso Illica a dichiarare le fonti storiche alla base del suo lavoro: nel drammatizzare la storia, infatti, l’autore ha ricercato dettagli di verità d’epoca. Mentre il primo quadro è ambientato nell’inverno del 1789, gli altri si svolgono nel 1794 in pieno Terrore, poco prima che Robespierre venga arrestato». Sospesi tra realtà e finzione non possiamo non ricordare come Illica usò nel suo testo le poesie di Cheniér, l’aria “Come un bel dì di maggio” ad esempio riprende la famosa poesia “Comme un dernier rayon”.

TEATRO E CINEMA. «Giordano e Illica costruirono un’opera dal taglio filmico – dice il regista Vaccari – con quadri brevi, primi piani fulminanti, grandi scene d’assieme, tutto scandito da una rapida modernità che ritroviamo anche in Fedora. Ho preso le mosse da quest’aspetto per narrare una storia quanto più cinematografica possibile che descrivesse poco e raccontasse molto senza smarrire la peculiarità del protagonista, la poesia». Per i casi fortuiti della vita Giandomenico Vaccari ha già diretto qualche mese fa Andrea Chénier al Teatro Nazionale di Belgrado, debuttando qualche giorno fa a Lecce con Fedora, l’altra grande opera di Giordano. «Andrea Chénier è dentro il flusso letterario del decadentismo. Per la società delle banche e degli affari di fine Ottocento, quando l’opera fu composta, gli scrittori avevano perso la loro funzione diventando voci inascoltate. Gli artisti venivano isolati perché non erano più in grado di capire il mondo che cambiava sotto i loro occhi, come Chénier, che alla vigilia della sua morte non è più in grado di comprendere la rivoluzione francese finendo per esserne vittima». Il legame con il mondo della prosa spinge Vaccari a collocare la dimensione interpretativa in una posizione complementare rispetto al canto: «Il teatro è azione e quello di Giordano lo è ancora di più, per questo curo particolarmente la recitazione dei cantanti affinché ogni parola possa assumere il giusto peso».

LA STRUTTURA. L’opera è strutturata su tre livelli: lo sfondo storico, presente attraverso i canti rivoluzionari come la Carmagnola, il Ça ire e la Marsigliese. Ancora, i camei che documentano il desiderio di Illica di definire i personaggi di contorno: come l’abate proveniente da Parigi; Roucher, poeta amico di Andrea; gli Incredibili, spie di Stato; le Meravigliose, prostitute alla greca e la vecchia Madelon. E per finire i tre protagonisti: Andrea, Maddalena e Gérard che compongono il triangolo amoroso per eccellenza in voga per tutto il corso del secolo. La forza di quest’opera è la sua straordinaria attualità che la rende capace di parlare a spettatori di epoche diverse. Conclude così il musicologo Montemagno: «Mentre i due innamorati Andrea e Maddalena si dirigono verso la ghigliottina, Gérard piange tra la folla tenendo fra le mani la lettera laconica di Robespierre che alla sua richiesta di misericordia rispondeva: “Anche Platone bandì i poeti dalla sua Repubblica”. Con un salto temporale arriviamo al gennaio del 1944 quando Robert Brasillach, giudicato frettolosamente collaborazionista dal regime di Vichy, viene condannato a morte. Dedicherà gli ultimi giorni della sua vita alla redazione di un’antologia di poesia di Chènier mentre invano i più importanti artisti e scrittori del tempo chiederanno al generale De Gaulle la grazia, che non verrà mai concessa. Come sempre la rivoluzione uccide i suoi figli migliori».

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