«Era il febbraio del 2013 quando incontrai per la prima volta Lawrence Ferlinghetti», comincia così Mauro Aprile Zanetti a raccontare i suoi otto anni di amicizia e collaborazione con “Little Boy”, il poeta, pittore, fotografo, imprenditore della controcultura che scoprì Jack Kerouac e pubblicò L’Urlo di Allen Ginsberg, scomparso il 23 febbraio all’età di 101 anni. «101 e 11 mesi», tiene a precisare Aprile Zanetti al telefono da San Francisco. «Il 24 marzo avrebbe compiuto 102 anni».

Mauro Aprile Zanetti, film-maker, scrittore, saggista e giornalista siciliano trapiantato a San Francisco, dove lavora come portatore di umanesimo nell’alta tecnologia, chief evangelist di un’azienda dell’intelligenza artificiale, ha fatto da assistente, segretario, ufficio stampa di Ferlinghetti. Ma, soprattutto, è stato un fedele amico, tanto da diventare i suoi occhi man mano che il poeta andava perdendo la vista. «È il mio folletto», diceva il poeta di lui. «Un folletto con le ali ai piedi, tutto cuore e primavera: per questo si chiama Aprile».

«La prima volta che lo vidi mi trovavo allo “U. S. Original”. Riconobbi la sua sagoma da un murales che si trovava in sala e che lui odiava. Io mi alzai, per rispetto. Il clic? Quando seppe che ero italiano»

L’Italia li ha fatti conoscere. In quella vecchia bettola tricolore di North Beach, a San Francisco, dove si imbatterono per la prima volta. «Si chiamava U. S. Original, dove “U. S.” non stava per United States, ma per Unione sportiva», ricorda Aprile Zanetti. «Io ero a San Francisco da un mese, venivo da dieci anni a New York. In questa taverna entrò un’ombra, molto alta, accompagnata da una giovane donna. Fu accolta da un brusìo e io riconobbi nella sagoma la figura di Ferlinghetti, che era disegnata su un murales del locale, odiato dal poeta, come non sopportava quadri e ritratti secondo scaramanzia da antico bresciano che era nel Dna. Io mi alzai, per rispetto, e lui si avvicinò. Il clic è scattato appena ha saputo che ero italiano».

Di Ferlinghetti il quarantaseienne siciliano sapeva ben poco. «L’unico autore della beat generation che conoscevo e adoravo era William Burroughs», premette. «Quando girai a Scicli il film ‘U Gioia Jaloffra e Filuvespri – ‘U Gioia garofani e siesta sui riti santi della Pasqua siciliana, Burroughs era una delle tre “B” che mi ispirò: lui per la letteratura, Carmelo Bene per il cinema e Mastro don Gesualdo Bufalino per l’idea di scrivere di luce e di lutto. Avevo letto L’Urlo di Ginsberg, di Ferlinghetti nulla».

Aprile Zanetti e Ferlinghetti con Rena Bransten, proprietaria
dell’omonima galleria d’arte a San Francisco

Oltre all’Italia, l’altro elemento che suscitò la curiosità dell’anziano poeta fu un libro che Aprile Zanetti aveva pubblicato: La natura morta de La Dolce Vita – Un misterioso Morandi nella rete di Fellini. Era uscito in occasione di una triplice mostra a New York sull’arte di Giorgio Morandi. «La mia intuizione era che una natura morta di Morandi nello studio dell’intellettuale suicida Steiner nella scena principale della Dolce Vita fosse il vero cuore del film di Fellini». Una tesi che affascinava Ferlinghetti, il quale ricordava quel libro, che gli era stato donato dalla direttrice dell’Istituto di cultura italiana di San Francisco e che lui aveva esposto sugli scaffali della sua celebre City Lights Bookstore. «Aveva 94 anni, ma si ricordava di un libro che aveva nella sua libreria», si meraviglia ancora l’intellettuale sciclitano. «In quel rapporto che stava nascendo i ruoli erano ribaltati: il fan non ero io, ma sembrava lui, che continuava a chiedere informazioni sui miei lavori. Era attratto dal mio precedente libro sui riti santi siciliani, che, tra l’altro, ha ispirato l’album Ovunque proteggi di Vinicio Capossela, che contiene il brano L’uomo Vivo-Inno al Gioia dedicato alla statua del Cristo Risorto di Scicli, “U Gioia”, e alla tradizionale festa celebrata per Pasqua. E poi Lawrence fu colpito dal mio nome: Aprile. Mi definiva “la sua ultima primavera”. Mi invitò a casa sua a bere un caffè e s’instaurò la nostra amicizia».

In effetti, Mauro Aprile Zanetti segnò un risveglio, una rinascita, per l’anziano poeta al quale il glaucoma nei suoi famosi azzurrissimi occhi da marinaio aveva cominciato a togliere la vista. Ferlinghetti trovò nuova linfa, si riaprì al mondo, concesse alcune interviste, la prima all’amico siciliano che al tempo scriveva per il quotidiano torinese La Stampa. Riprese a scrivere. O, meglio, a dettare a Mauro il suo ultimo lavoro. Nasce così Little Boy, «libro vicino all’entropia, difficile, in contrasto con i suoi lavori precedenti», spiega Aprile. «Lui scriveva poesie semplici, odiava l’accademia, pur possedendo due lauree. Era il poeta del popolo».

«A proposito di sé diceva: “Non sono mai stato un beat. Ma ho condiviso quel messaggio, che è stato a lungo la voce centrale del dissenso americano. Una critica valida ancora oggi allo stile di vita americano”».

Così come odiava essere definito poeta della Beat generation. «Senza Allen Ginsberg non ci sarebbe stata una Beat Generation. Fu una creazione della sua mente», era solito ripetere. «Quanto a me, non sono mai stato un beat. Una volta io e Kerouac eravamo seduti sulla spiaggia di Big Sur davanti al Pacifico. Mi chiese: “Cosa ci sta dicendo il mare?”. Risposi, visto che tutti e due eravamo cresciuti parlando francese, “les poissons de mer parlent Breton” (i pesci parlano bretone, come bretoni erano le origini di Kerouac, nda). Ecco, in quelle parole c’era il mio essere immerso nella grande beatitude di quel tempo, pur non essendo un beat. Ma ho condiviso quel messaggio, che è stato a lungo la voce centrale del dissenso americano. Un messaggio che resta ancor oggi una valida critica dello stile di vita americano».

«Lawrence era un bohémien, era intriso di cultura francese: Mallarmé, Baudelaire», ribadisce l’amico siciliano. «Poi lui non aveva mai fatto uso di droghe, né di alcol. Lui alzava la saracinesca, era un imprenditore, pragmatico».

Aprile Zanetti e Ferlinghetti in compagnia
del collezionista e filantropo Jan Shrem

Ferlinghetti ha offerto a Mauro un porto al quale attraccare dopo trent’anni trascorsi in giro per il mondo alla ricerca di una terra promessa. Via dalla sua Scicli a 18 anni per andare a studiare all’Università di Firenze. Poi Roma e Milano nella speranza di entrare nel mondo del cinema. “Ghost writer” per la Farnesina in India. Giornalista a New York dopo essere stato respinto ancora una volta dal muro di gomma del cinema italiano. Infine, in California con l’idea di una start-up sull’artigianato italiano. «Ma poi ho fatto altro», sorride. «San Francisco è la mia tela di Picasso. Adesso insegno anche all’Università di Cagliari, tengo un corso per ingegneri di programmazione».

E poi Ferlinghetti. Sul quale scriverà un libro, di foto e di parole, con scatti inediti e curiosi aneddoti. Come quello legato al Natale del 2015. «All’improvviso mi chiese: “Cosa fai questa sera?”. “Sarò a casa, con mia moglie e i miei figli”, gli risposi. “Ricette siciliane, se vuoi puoi venire a casa nostra”. “Sì, sì”, disse felice e meravigliato. Più tardi mi telefonò e mi domandò: “Sei sicuro che posso venire a casa tua stasera?”. Gli confermai l’invito e lui si presentò. Avvertiva il bisogno di avere una famiglia. Portò una bottiglia di vino e una carta cotone con stampata sopra la celeberrima poesia Pity the nation (Pietà per la nazione). Si sedette e cominciò a leggerla. Lui, abituato a leggere poesie negli stadi, stava lì davanti a quattro emigrati a recitare i suoi versi».

Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore

e i cui pastori sono guide cattive

Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi

i cui saggi sono messi a tacere”

Quella sera di Natale mangiarono tutti assieme ravioli di ricotta col sugo e scacce modicane e risero tutti assieme al nonno adottivo Lawrence Ferlinghetti. «Secondo la sua ricetta di vita, che recitava sempre in italiano: “Mangia bene. Ridi spesso. Ama molto”».

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