Dalla “fotografia” del mercato del lavoro in Italia negli ultimi 30 anni a numeri e prospettive dello smart working per provare a individuare i punti fermi da cui potrebbe ripartire il paese nello scenario post Covid-19. Di questo e altro abbiamo parlato con Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’ISTAT, a margine del suo intervento al Meeting di Rimini 2020 dove è stata tra i protagonisti della conferenza “Un nuovo mondo del lavoro, nuovi modi di lavorare”, che lo ha visto confrontarsi con alcuni amministratori delegati di grandi aziende e multinazionali.

«La crisi del 2008 ha colpito prevalentemente uomini e giovani, con saldi negativi per gli autonomi, ma al Sud le ripercussioni sono state anche sui dipendenti a tempo indeterminato e con intensità maggiori»

Presidente, che tipo di evoluzione ha avuto il mercato del lavoro in Italia negli ultimi anni? E che scenari si sono presentati nelle varie parti del Paese?
«Se guardiamo agli ultimi trent’anni, le grandi tendenze di fondo sono state tutto sommato positive. Progressivamente si è andati verso mansioni alte o medio alte, a scapito di quelle di basso livello, che hanno subìto un forte ridimensionamento. Questa tendenza ha avuto una battuta d’arresto nel 2008, con la crisi che ha determinato alcune variazioni, ad esempio sono diminuite le costruzioni e aumentati i servizi alla persona, come le badanti. In questo contesto, tuttavia, la capacità di recupero del Meridione rispetto al Centro-Nord è stata limitata. Se, a livello generale, i più colpiti dalla crisi sono stati uomini e giovani, con saldi negativi per gli autonomi, al Sud le ripercussioni sono state anche sui dipendenti a tempo indeterminato e con intensità maggiori».

E la crisi Covid-19, come ha impattato sullo scenario lavorativo italiano?
«C’è stata una caduta drammatica, durata alcuni mesi, e una ripresa che non ci ha ancora riportati ai livelli precedenti. Sono crollate le ore lavorate, l’occupazione è rimasta perché sostenuta, ma sono diminuiti i nuovi avviamenti e i contratti a tempo determinato non sono stati rinnovati. Ad aprile 3,5 milioni di persone sono andate in cassa integrazione, un dato sceso a 2,5 milioni nel mese di maggio. La cosa più preoccupante, tuttavia, è stata l’aumento degli inattivi: da febbraio 2020 il livello dell’occupazione è sceso di circa 600mila unità e le persone in cerca di lavoro sono diminuite di 160mila, tutto questo a fronte di un aumento degli scoraggiati, cioè coloro che non cercano più lavoro, di oltre 700 mila unità. Chiaramente, sebbene la crisi sia stata generalizzata, essa è stata accentuata dove la situazione non era già particolarmente rosea, ovvero al Meridione».

«Le difficoltà ad adattare gli spazi di lavoro allo smart working dipende molto dalle dimensioni delle aziende. Sono necessarie risorse di tipo tecnologico, organizzativo e finanziario

Il lockdown ha dato una forte spinta alla diffusione dello smart working, che sebbene fosse già presente in Italia rappresentava una quota minimale. Siamo pronti a fare in modo che il lavoro a distanza diventi un elemento su cui contare per fare crescita?
«Affinché ciò diventi una vera opportunità devono esserci delle condizioni precise. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, è fondamentale che queste dispongano di adeguate risorse di tipo tecnologico, organizzativo, ma anche finanziario. In questo senso, mediante le nostre indagini, abbiamo constatato come la difficoltà a riadattare gli spazi di lavoro dipenda molto dalla dimensione aziendale. A dichiararsi impossibilitate a farlo sono il 15,3% delle micro-imprese e l’11,6% delle piccole (che insieme rappresentano il 7,2% dell’occupazione complessiva). Fra le medie e le grandi, più di due imprese su tre hanno già provveduto alla riorganizzazione degli spazi (30,7% dell’occupazione) mentre solo il 7,4% delle medie e il 4,3% delle grandi affermano di non poterli adeguare (2,8% degli occupati). A ciò dobbiamo aggiungere che lo smart working non è applicabile in tutti i settori. Bisogna allora cogliere la dimensione del fenomeno, i suoi aspetti differenziali e di volta in volta andare a immaginare degli interventi, delle azioni, che consentano di ottimizzare le opportunità che si vengono a presentare».

E dal punto di vista dei lavoratori? Il lavoro a distanza ha introdotto elementi migliorativi? In che modo cogliere al meglio queste opportunità?
«Durante il lockdown 4,5 milioni di italiani hanno lavorato da casa. Si tratta di un incremento esponenziale rispetto allo stesso periodo durante l’anno precedente. Tuttavia, solamente il 22% della popolazione ha competenze digitali elevate e inoltre il Paese mostra un rilevante ritardo nel confronto internazionale. In Italia internet è utilizzato regolarmente dal 74% della popolazione, a fronte dell’85% dei 28 paesi UE. I vantaggi del lavoro da casa sono molti, ad esempio il 60,3% di questi lavoratori dichiara di godere di ampia autonomia su contenuti e modalità di lavoro. Lo smart-working contribuisce anche in maniera significativa all’ambiente e rende conciliabile la maternità con il lavoro. Ogni medaglia, tuttavia, ha il suo rovescio: il 40% dei lavoratori dichiara di essere stato contattato fuori dall’orario di turno almeno 3 volte da superiori o colleghi. Ciò che viene a mancare, poi, è una certa dimensione sociale: perché il lavoro non è solo portare a casa uno stipendio, ma anche vivere insieme agli altri nella propria vita quotidiana».

Al netto del digital divide, che ancora rappresenta un problema in alcune zone del Paese, si è discusso molto di iniziative come il “South working”. Più in generale, il lavoro a distanza potrebbe rappresentare un’opportunità concreta per il rilancio del Meridione?
«Si tratta di un nuovo confine che si può cercare di raggiungere, a patto di essere sorretti da competenze e tecnologie adeguate. Se prenderà piede una cultura dell’acquisto di beni e servizi maggiormente incentrata sulle specifiche competenze di chi li produce, questo potrebbe addirittura ridurre o contenere i fenomeni di migrazione dei giovani dal Sud verso il Nord».

«Dobbiamo aiutare i giovani a muoversi lungo direzioni che siano più vicine ai bisogni del Paese, perché è bello fare ciò che piace, ma le competenze su cui investiamo devono essere adatte a ciò che il mercato del lavoro chiede»

A proposito di giovani. Durante il suo discorso d’introduzione al Meeting, Mario Draghi ha posto un forte accento sul ruolo delle nuove generazioni nella ripartenza del Paese. Tuttavia i dati delle nascite in Italia, anno dopo anno, sono sempre più scoraggianti. Che futuro ci aspetta?
«Si tratta di numeri davvero preoccupanti. Temo che nel 2021 sia possibile che il totale dei nati, senza contare i figli degli immigrati, scenda sotto le 400mila persone, a fronte dei 420mila dell’ultima rilevazione. Ciò è preoccupante, soprattutto se associato al fatto che gran parte del nostro capitale umano fugge all’estero dopo aver studiato qui. Il punto è che alla formazione deve corrispondere una condizione di produttività. Bisogna riuscire a creare le condizioni perché questo accada e, in questo senso, ciò che manca è il concetto di assunzione di responsabilità. Dobbiamo aiutare i giovani a muoversi lungo direzioni che siano più vicine ai bisogni del Paese, perché è bello fare ciò che piace, ma le competenze su cui investiamo devono essere adatte al mercato. Oggi viviamo un momento di choc che potrebbe essere un’opportunità per riorganizzare alcune cose. Cerchiamo di farlo».

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