«A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere». Scriveva così, in Tenera è la notte, la raffinatissima penna di Francis Scott Fitzgerald. Ma davvero si può amare qualcosa o qualcuno a tal punto da desiderare di non essersi mai imbattuti nell’oggetto della propria passione? A tal punto da confondere la felicità con la rassegnazione, la sicurezza della presenza con l’insicurezza dell’illusione? Evidentemente sì. Perché sottili, ed estremamente fragili, sono gli equilibri dell’amore: talvolta inutilmente prevaricanti ed egoisti, altre volte prigionieri di paure e sensi di colpa, altre volte ancora fatalmente spezzati dallo spettro della lontananza. Lo sapeva bene Vitaliano Brancati, che di questo genere di sentimento fece la propria linfa e il proprio cruccio, la propria ragione di ispirazione e al contempo il suo distruttivo e fedele compagno. Nell’unione apparentemente splendida e glamour con la nota attrice Anna Proclemer, infatti, da ambo le parti si celavano salatissime cicatrici e lacrimevoli reticenze. Che ancora oggi commuovono e ci restituiscono una delle relazioni più belle e significative dell’intero ‘900 italiano.

Il loro primo incontro avvenne nel 1942: 35 anni lui, autore già di una certa fama, 19 lei, impegnata nelle attività del Teatro dell’Università di Roma. Si sposarono nel 1947 (anno in cui nacque anche la figlia Antonia), quando la guerra, e il fascismo che Brancati aveva apertamente ripudiato dopo un primo avvicinamento, avevano dato loro tregua. Ma fin da subito emersero i primi, struggenti tormenti. In un lettera datata 1942, inclusa nel bel volume Lettere da un matrimonio, lo scrittore si rivolge così all’amata compagna: «Passeggio, la notte, intorno al mio letto, faccio penosi calcoli con le dita, a tutti domando la stessa cosa; mi sono rimasti solamente due pensieri: uno scintillante come il sole, e uno nero come la morte. E il primo è che tu sei la più dolce, bella, intelligente, candida ragazza del mondo, e il secondo che sei tanto giovane, e io no. Gli anni, che guardavo con simpatia come bravi cavalli che m’avessero portato, ora li odio perché mi hanno portato così lontano da te. A mia madre stessa, che adoro, non so perdonare di avermi fatto nascere così presto». Un dramma profondo, quello di Brancati, continuamente di fronte non solo al progressivo e inarrestabile scemare della propria giovinezza, ma anche alla consapevolezza di non poter assaporare interamente la pienezza di quel sogno d’amore che aveva acciuffato e che, tuttavia, sembrava continuamente scivolargli tra le dita.

Gli anni del matrimonio non fecero che acuire le crepe tra i due sfortunati amanti: Brancati, diviso tra Roma e la Sicilia, cercava pace, stabilità, semplicità; Anna, nel pieno della carriera, illuminava le scene, spostandosi freneticamente da una città del Nord all’altra. Con la sua solita pudicizia, così Brancati intonava alla moglie il suo canto nostalgico: «Io ho bisogno, per il mio lavoro, di raccoglimento, di tranquillità, di libri, e di una vita quasi patriarcale. Bisogna che noi costruiamo un centro così, dal quale tu potrai uscire quando vorrai e io spero che la necessità ti ci costringa il meno possibile (ma è una speranza, non una pretesa), e io pure, quando vorrò. Tu hai bisogno del palcoscenico e dei teatri di prosa, io di silenzio». Divergenze forse inconciliabili, destinate a cedere il passo dinanzi agli eventi. «Ricordo – scrisse Anna tempo dopo a commento di quelle tante lettere che si erano scambiati – un pomeriggio milanese. Una giornata d’inverno, una pioggia leggera. Mi fermai in mezzo a piazza della Scala, sotto l’ombrello. L’odore del Nord, le luci smorzate, il suono di quella città civile e amatissima, il pensiero del teatro che mi aspettava, del lavoro che amavo mi invasero di un così forte senso di felicità da sentirmene stordita. Durò un attimo. Ripiombai subito nel dedalo delle mie preoccupazioni per B. rimasto solo a Roma, e paragonai il mio stato di un attimo prima a quello che doveva essere il suo. La diversità dei nostri sentimenti mi sgomentò. Ciò che per lui era solitudine per me era libertà».

Brancati morì nel settembre del 1954 a causa di un’operazione di routine finita male. Poco prima, pur rimanendo legatissimi, lui e Anna si erano separati. La Proclemer, successivamente, divenne per tanti anni la moglie di un’altra grande figura della nostra cultura, ovvero Giorgio Albertazzi. Ma del suo incontro con Brancati, privato ingiustamente di un meritato lieto fine, rimane la ricerca della felicità strozzata in gola, il desiderio inesauribile di riavvicinarsi e la cronica tendenza a farsi del male. Ogni carezza che lasciava un graffio, ogni bacio dall’acre sapore dell’addio, ogni preghiera travestita da lettera. Furono circa 12 gli anni che trascorsero insieme. Troppo pochi, forse, per la grandezza del loro amore; tanti, forse, per gli strascichi lasciatisi dietro. Ma a farli restare insieme, finché fu possibile, fu una sola convinzione: che anche nel dolore c’è una ragione. Che la lontananza è solo un Purgatorio in attesa di riabbracciarsi, che le pene degli amanti sono delle prove per risultare degni del suo peso. Che talvolta si è più vivi tentando di colmare un’assenza che accontentandosi di una indolente presenza. Amarsi è dolore. Ma, come diceva qualcun altro, è anche un po’ fiorire.

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