Cosa rende un prodotto dell’ingegno umano degno di essere annoverato come espressione dell’Arte? A quale criterio, fattore o elemento ci si può aggrappare per determinarne il pregio? È forse la forma – o lo stile – la stella polare che può guidarci? O è qualcosa di più profondo, viscerale, intrinseco a plasmare le nostre opinioni? Dubbi per certi versi amletici, che non si prestano a risposte immediate o scontate. Non è un caso, del resto, che a proposito di tali questioni innumerevoli generazioni di artisti si siano interrogate sul senso autentico del rapporto tra creatore e fruitore di un’opera. Dal cinema alla scrittura, passando per le arti figurative, tuttavia, su un punto i grandi sembrano concordare: a prescindere dalle specifiche caratteristiche che ogni epoca porta inevitabilmente in dote, ciò che più contraddistingue l’Arte è la sua capacità di parlare un linguaggio universale, di afferrare nella sua confortevole morsa – pur suscitando talvolta emozioni del tutto differenti – ogni cuore che le si affianca. Tra i tanti aneddoti che potrebbero essere citati sul tema, particolarmente efficace – e a noi caro – è quello relativo a Renato Guttuso e ad un suo interessante elogio pirandelliano. Esprimendosi sulle similitudini esistenti tra dipinti e lettere, il pittore bagherese consegnò alla memoria una definizione memorabile della propria poetica e del legame appassionato con la sua bella Sicilia.

Non si può, d’altra parte, impostare un discorso relativo all’attività di Guttuso senza tenere in debita considerazione quanto presente e duratura la Trinacria sia stata nel suo immaginario, anche e soprattutto nei momenti di doloroso distacco. Lo ripeté più volte, persino allo sfinimento. Quando gli chiedevano, ad esempio, quale fosse la sua principale fonte di ispirazione: «Io dico sempre che le cose che hanno più influito sulle scelte della mia vita sono Villa Palagonia e la pittura dei carretti. Sono i due elementi che hanno influito sulla mia immaginazione, sulla mia fantasia, profondamente. Non me li tolgo di dosso». O quando qualche stolto storceva il naso perché, a suo dire, i soggetti dei suoi quadri tendevano a ripetersi con troppa insistenza: «Sono stato rimproverato di aver dipinto troppi limoni. Credo che non sia un giusto rimprovero perché i limoni sono l’ambiente naturale nel quale io sono nato e cresciuto. Andavo con mio padre in campagna, nei giardini di limoni, a misurare la terra; ho visto abbeverare i limoni, ho visto raccogliere i limoni… Ho vissuto tutta la mia infanzia in mezzo ai limoni». Guttuso, pertanto, non fu appena un cantore della Sicilia. Ne fu, piuttosto, un perfetto riflesso, una brillante incarnazione, un travaso mistico destinato ad essere tradotto su tela. Ma è proprio a dispetto di questa apparente dimensione locale, dell’immensa influenza che una realtà tanto regionale e circoscritta ebbe la sua poetica, che il miracolo dell’arte mostrò tutte le sue potenzialità. Gli scorci, i paesaggi, i ritratti del bagherese, infatti, conquistarono tutto il mondo, consacrandolo a riferimento assoluto del secondo Novecento. Com’è possibile che uno straniero – che di Sicilia e di siciliani sa poco o nulla – possa apprezzare così intensamente il messaggio veicolato da Guttuso? È lo stesso pittore a spiegarlo: «Un artista parla solo delle cose che conosce, delle cose che sa, delle cose con le quali ha vissuto una comunione profonda da sempre, da quando non era neppure cosciente. Quindi il mio legame con la Sicilia è così profondo che viene fuori. Pirandello ha raccontato i pettegolezzi della farmacia di Porto Empedocle e sono stati capiti in Alaska e in Giappone. Quando si dice qualche cosa di vero, di profondo, questo diventa sempre universale. Il cuore umano ha una parte universale».

E a quella parte così sensibile l’isola si rivolge da secoli: senza filtri, senza remore. Fragile, bella, dannatamente complicata, in conflitto con sé stessa, struggente e sorprendente come la vita. Perché la Sicilia è, essenzialmente, inconsapevolmente, indubitabilmente Arte. Capace di commuovere e di ispirare ad ogni latitudine. E per questo, ancora e sempre, inesauribile sorgente di racconti.

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