Mossa da un insopprimibile senso della giustizia, la giovanissima fotoreporter francese perse la vita nel 2014 in un’ imboscata mentre attraversava il confine tra Repubblica Centraficana e Camerun

Voleva capire di più e far capire a tutti con le sue fotografie l’assurdità delle guerre troppo rapidamente dimenticate. Voleva testimoniare più vicino possibile la sofferenza dell’innocente e denunciare l’ingiustizia.

Questo era la fotoreporter Camille Lepage nata ad Angers, in Francia, il 28 gennaio 1988. Dopo aver studiato giornalismo e fotogiornalismo nel Regno Unito, Olanda e Danimarca, un giorno decise di partire con lo zaino e la sua macchina fotografica per andare nel 2012 in quei Paesi di cui i media non parlano abbastanza, per documentarne i conflitti e mostrare la realtà sul campo.

L’amore per l’Africa, la passione per il suo lavoro, il desiderio di raccontare quelle storie poco conosciute e poco raccontate, l’avevano portata nel Sud Sudan a vivere insieme alla popolazione locale per 14 mesi, poi nella Repubblica Centrafricana, per 8 mesi, fino alla sua morte, uccisa durante il conflitto della Seconda guerra civile in quella terra martoriata nel 2014 a soli 26 anni.

«Aveva una vera vocazione, voleva raccontare le sofferenze delle popolazioni di cui non si parla e che sono in pericolo – ha raccontato la madre Maryvonne poco dopo la notizia dell’uccisione – sapevo che correva dei rischi. Tutti i giorni avevo paura, ma mi dicevo che dovevo abituarmi. Una madre deve lasciare che i figli seguano la loro strada, non potevo fare altro che sostenerla. Si spera sempre che non succeda, ma adesso Camille fa parte delle centinaia di giornalisti uccisi ogni anno».

L’immagine scelta tra le tantissime di Camille è una delle ultime scattate in Sud Sudan alla fine del 2013. Una coppia cammina sopra le ceneri della propria casa distrutta da un bombardamento nel villaggio di Kauda. L’offensiva ha distrutto quattro case e tutte le colture annuali che erano state raccolte. Le famiglie non avranno cibo fino al prossimo raccolto nel mese di settembre dell’anno successivo. Immagini del genere, purtroppo in questi decenni, ne abbiamo viste troppe, ma forse mai come questa. Lo scatto, oltre l’immagine terrificante del bombardamento che ha ridotto tutto in cenere, oltre il fumo che avvolge ogni cosa, ha un aspetto pieno di tenerezza che commuove. Una coppia, evidentemente provata dalla devastazione tutto attorno, si tiene per mano, come a dire: «Non molliamo, noi siamo uniti». L’uomo ha il passo deciso, non si abbatte anche dopo un disastro del genere. La sua compagna lo segue senza tentennamenti.

Camille, pur tanto giovane per un lavoro come quello di reporter di guerra, ha le idee chiare. Alcuni giorni prima della morte in un’intervista al blog di fotografia “PetaPixel” aveva dichiarato: «Ho sempre desiderato, fin da quando ero piccola, andare in posti dove nessun altro voleva andare e seguire in maniera approfondita le storie legate a situazioni di conflitto. Ho seguito nel dettaglio il processo di indipendenza del Sudan meridionale, ed ero scioccata dalla scarsa copertura che gli veniva dedicata dai media… Inoltre, il clima di pessimismo generale che si respirava mi annoiava molto.

Poi, mentre facevo delle ricerche, ho scoperto il conflitto delle Montagne di Nuba, e mi sono indignata ancora di più nel vedere che, a parte pochi media, nessuno ne parlava. La scelta mi è parsa ovvia, dovevo andare in quel luogo per raccontarlo. Certo, come prima esperienza africana sembrava pericolosa, perciò cercavo delle alternative. Ho pensato di trasferirmi in Uganda e fare avanti e indietro tra i due Paesi; poi ho realizzato che avrei potuto, con ogni probabilità, trovare un impiego al giornale locale e iniziare in una realtà strutturata, piuttosto che lanciarmi allo sbaraglio senza né contatti né portfolio e soprattutto con alle spalle un’esperienza davvero minima. E così ho fatto».

Voleva fraternizzare con le persone, vivere la loro stessa quotidianità, e mostrare al mondo le loro condizioni di vita. Attraverso il contatto e la fiducia ha potuto comprendere meglio. E catturare, nelle sue fotografie, gli sguardi e le vite. Le foto neppure li commentava, per lei non c’era bisogno di aggiungere parole superflue, nella didascalia precisava solo luogo e data.

Camille è stata assassinata il 12 maggio 2014, colta da un’imboscata mentre seguiva una milizia cristiana vicino al confine camerunense. Proprio in questi giorni, a sei anni dall’uccisione, la madre Maryvonne Lepage e il responsabile dell’Africa di Reporter senza frontiere (Rsf), Arnaud Froger, hanno chiesto alle autorità francesi e centrafricane che le indagini e la ricerca di verità non si perdano nel pantano della burocrazia e non siano oscurate dall’emergenza coronavirus.

Nel 2019 a lei è stato dedicato il film “Camille”.

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