«Quando fotografo e mi rendo conto che non riesco a cogliere quello che vorrei, allora lascio la macchina fotografica e mi metto a guardare». Sebastião Ribeiro Salgado Júnior non ha dubbi sul significato profondo della fotografia, lo sguardo. «In qualche modo, chi guarda le mie immagini – afferma – non sta guardando solo belle immagini, non sta guardando solo una storia, sta guardando la mia vita. Quando immortalo una storia, quella lì deve essere la mia storia, la mia scelta. Devo instaurare pazientemente una relazione con il soggetto che sto riprendendo».

Nato ad Amoirés, nel Brasile dell’est, il fotografo classe ’44 si dedica inizialmente agli studi di economia nel suo Paese. Nel ’69 si trasferirà con la moglie Lélia a Parigi, per proseguire la sua formazione. Proprio a Lélia, studentessa di architettura, regala una macchina fotografica che sarà soprattuto lui a usare e che adopererà durante i suoi frequenti viaggi in Africa per l’Organizzazione Mondiale del Caffè, presso cui ha trovato lavoro.

L’esperienza africana si rivela essere profondamente trasformativa: insieme alla moglie, Salgado decide di lasciare tutto e dedicarsi a quella che ha scoperto essere la sua vera passione, la fotografia. Per quarant’anni si concentra su un’unica missione: mettersi sulle tracce di un’umanità che tenta di resistere di fronte ad un mondo in preda a drastiche trasformazioni. Testimone degli eventi più sconvolgenti della contemporaneità – conflitti internazionali, carestie, migrazioni di massa – si lancia alla scoperta di territori inesplorati e grandiosi, per incontrare la fauna e la flora selvagge in un grande progetto fotografico, omaggio alla bellezza del pianeta che abitiamo.

In tutti i suoi progetti ha una partner d’eccezione: sua moglie. «La cosa più importante della mia vita è il giorno in cui ho conosciuto mia moglie, nel 1964 – afferma l’artista – da allora abbiamo analizzato e discusso insieme ogni evento che ho fotografato. Abbiamo condiviso le stesse motivazioni etiche e politiche che hanno dato vita alle mie storie».

Salgado adora l’Africa in modo speciale. Al giornalista Mario Calabresi ha raccontato come si esaltasse nel fotografare il continente africano. «Amo i suoi cieli, i deserti, le montagne – ha detto – tutto è enorme ed ogni volta che arrivo sento che sono a casa. Riconosco anche il sottosviluppo africano, ma anche del Brasile, la siccità, la deforestazione, incontro donne e uomini che lavorano tante ore al giorno, senza educazione, senza casa, senza una buona alimentazione, senza assistenza e senza scarpe, solo per vendere prodotti sottopagati. Anche quando sono stato nei campi profughi non ho fotografato gente povera o disperata, ma persone. Io non ho mostrato i miserabili, ma gente che viveva in equilibrio e poi ha perso la casa, la terra e cercava un altro luogo dove vivere. Questa è la mia fotografia: rispettarli e mostrare una storia.

 Non sono spinto dall’idea di fare foto belle, ma da un senso di responsabilità: io scrivo con la macchina fotografica, è la lingua che ho scelto per esprimermi e la fotografia è tutta la mia vita. Non penso troppo alla luce ed alla composizione, il mio stile è dentro di me, è una luce che ho dentro di me da quando sono nato».

Tra i tanti reportage del fotografo brasiliano, uno particolarmente lo lega alla Sicilia: “Le mani dell’uomo”, terminato nel 1993. Una vera e propria inchiesta durata oltre sei anni nella quale Salgado esalta il lavoro manuale in un momento storico in cui le nuove tecnologie stanno soppiantando quello che per secoli è stato il vero valore aggiunto dell’uomo: la manualità. Un omaggio al vero motore dell’economia planetaria: gli uomini impegnati in lavori massacranti, dai minatori di zolfo o diamanti, agli operai che hanno realizzato il tunnel sotto la Manica, fino ai protagonisti della mattanza in provincia di Trapani. Un tipo di pesca, ormai quasi scomparsa per l’inquinamento crescente del mare, la mattanza, letteralmente uccisione efferata della popolazione ittica dei tonni rossi che rimangono infilati nelle maglie delle reti dei pescatori.

La foto presentata dal titolo: “Gli equipaggi, condotti dal rais, si radunano all’alba per dare inizio alla mattanza” è stata scattata nel 1991 a Favignana nel trapanese e ritrae l’ultimo capopesca della tonnara locale, Gioacchino Cataldo che è scomparso nel 2018. Il volto consumato dal sole del rais è serio, ma non triste, sa cosa sta per affrontare e sa pure che una scelta sbagliata, un dettaglio non calcolato può far saltare l’importante pesca.

Nello scatto, insieme al capobarca ci sono altri 16 pescatori, tutti attenti a cogliere l’esito finale, la pesca dei tonni, nessuno guarda la macchina fotografica. Lo sguardo è teso a chiudere ogni strada di uscita ai tonni. Salgado ha realizzato l’immagine usando pellicola fotografica in bianco e nero e una fotocamera da 35 mm., poco ingombrante con un obiettivo grandangolare. L’istantanea, con la forza del contrasto utilizzato, riesce a creare un’atmosfera visiva eccezionale con una illuminazione potente e con i soggetti, ognuno a suo modo, immersi totalmente nella mattanza da compiere. Guardando soprattutto gli occhi certi del capopesca, pieni di speranza, è evidente un forte coinvolgimento emotivo dello stesso fotografo brasiliano, quasi una partecipazione spirituale sui generis. Salgado non è credente, tuttavia, ha più volte dichiarato che ci sono storie dove è evidente una grande potenza dietro.


Sull’uso del bianco e nero l’artista non ha incertezze: «Nelle fotografie a colori c’è già tutto. Una foto in bianco e nero invece è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine e chi la guarda. La foto in bianco e nero può essere interiorizzata molto di più di una foto a colori, che è un prodotto praticamente finito. Non solo. Spesso la gente vede nei miei scatti dettagli che io non ho mai visto, se ne impadronisce, le fa proprie. E ciò vale soprattutto per le fotografie in bianco e nero, che hanno una dimensione più partecipativa. Questo mi impressiona più di tutto».

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