Di lui Andrea Camilleri – in un articolo di suo pugno datato 11 giugno 2005 che è possibile spulciare tra le sabbie dell’archivio del quotidiano La Repubblica – ebbe a dire che la sua personalità aveva qualcosa di alieno. E, in effetti, Angelo Maria Ripellino poco aveva a che spartire con la normalità propria di questo mondo. Come definire, altrimenti, un intellettuale che per tutta la vita, incurante delle tendenze, ha percorso in solitudine sentieri letterari accidentati, talvolta persino impossibili? Come etichettare un uomo perennemente impegnato a scavare la sua personalissima nicchia? Dalla poesia minore in lingua russa al teatro ugro-finnico, passando per la letteratura ceca, il suo fu un enciclopedismo esotico e sconfinato. Come i suoi orizzonti culturali e morali, che lo condussero a diventare un vero e insostituibile testimone della grande storia. Ancora risuonano le sue parole di condanna affidate a L’Espresso nel 1968, quando i carri armati sovietici misero a ferro e fuoco l’allora capitale cecoslovacca. Ancora tracce indelebili rimangono delle sue brillanti conversazioni con Pasternak – di cui fu traduttore – e con un giovanissimo Evtušenko da cui furono tratte delle splendide antologie capaci di ridare linfa al panorama editoriale italiano del Secondo dopoguerra, a lungo fiaccato dall’ottusa autarchia fascista. Basterebbe forse questo breve, esotico tratteggio per restituire la singolare dimensione di Ripellino. Eppure, se possibile, fu un altro l’elemento capace di elevarlo ad unicum surreale ed inclassificabile: il suo stesso poetare fu ancor più surreale, inclassificabile, inedito. Espressione di un’anima così sfaccettata da essere sfuggente. Di uno spirito che, tra le pieghe di un’ironia apparentemente leggera, si arrovellava nel tormento.

Ne derivò una lingua nuova. Mai più replicata (o replicabile). Una lingua inesistente, ma non per questo fittizia. Un’iperbole, una caricatura dell’esistenza stessa, ma non per questo svuotata di ogni significato. Una caverna senza fondo, alla quale approcciarsi, da lettori, con la curiosità e l’ardire di uno speleologo. Ad un primo sguardo senza alcun contesto, sconnessi e grossolani frammenti di goliardia, i componimenti dello scrittore nativo di Palermo appaiono, invece, come istantanee di un mondo in trasformazione. Come specchi di caducità in cui riflettersi mestamente. Come spazi del cuore che disperatamente inseguono un’estensione che li salvi dalla compressione di un tempo che consuma. Squarci di dolore, di un passato ancora pressante, che pregano per il loro futuro. È quanto accade, ad esempio, in Vorrei…, tratta dalla raccolta Notizie dal diluvio (1969): «Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei / che tu non conoscessi il cane nero della sventura, / quando sarai uscito dal blu dell’infanzia. / Vorrei che tu non debba portare bazooka, / che non debba tremare nel folto di un bombardamento / che tu non debba pagare per le mie colpe / né vergognarti di me, del mio cicaleccio / e dei miei vani versi e della mia professura. / Vorrei che tu non fossi mai gramo o malato / o maldestro come Scardanelli, vorrei vivere nella tua voce, nei tuoi gesti, nei tuoi occhi / anche quando mi avrai dimenticato». O, ancora, in Resta con me, non andartene, tratto da Lo splendido violino verde (1976): «Resta con me, non andartene. / Già bolle il caffè turco della notte eresiarca, / come azzurre fiammelle di ponce sfavillano / le lampadine giranti del Luna Park. / Non affogare nel ròtor, nel grinzo / gorgo dei casamenti impazziti, / dove scurrili bellocce si impinzano / di fricandò e di soffritti. / A tante storie consunte si aggiunga anche questa, / ma resta, / furbastra barbiera e giumenta: / imbrattami di noia, di falsa gioia, / di paroline spumose e posticce, / perché, come in tempi lontani, / io mi senta stupidamente felice». Una lirica calcata, esagerata, strabordante, insomma. In cui l’inventiva, il sovraccarico semantico e lessicale diventano essi stessi vettori di un messaggio. Di un vuoto da riempire con la forza delle parole.

Quello stesso vuoto che oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, sembra averlo inspiegabilmente divorato. Trascinato in un sommesso semi-anonimato che, forse, nemmeno una stringa di giornale prodotta da uno degli autori siciliani più mediatici di sempre è riuscita a diradare. Anche se, a dirla tutta, il dubbio che fosse destino non può che sorgere spontaneo. Poteva, in fondo, Ripellino, rinunciare ad essere un mistero anche dopo la morte, dopo esserlo stato senza compromessi in vita?

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