Bearsi della propria bellezza è sintomo di consapevolezza. Di alta considerazione per ciò che si è stati e si continua ad essere. Arriva un momento, tuttavia, in cui questa attitudine, questa tendenza a cullarsi nella propria indiscussa unicità, può rivelarsi pericoloso. A ricordarcelo è un mito greco, narrato nella Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro: la storia della vanitosa e intrattabile ninfa Cassiopea, punita dal dio Poseidone a rimanere in eterno tra gli astri del cielo perché rea di considerare il proprio aspetto – e quello della figlia Andromeda – superiore a quello di ogni altro vivente. La supponenza di credersi perfetti, bisognosi di nulla, di crogiolarsi nello stereotipo o nell’adulazione altrui può portare all’immobilismo. Alla miopia nei confronti di una realtà che cambia e che, a nostra insaputa, sta scardinando le nostre più ferree condizioni. Ciò che leggendariamente è accaduto a Cassiopea, ritratta spesso nell’atto di pettinarsi ossessivamente i capelli, può accadere anche ad un luogo. Ad un popolo. Ad una comunità convinta che il nobile retaggio del passato possa bastare, quasi fosse un diritto perenne alla grandezza, a traghettarla nei mari avventurosi del futuro. Quante volte, anche inconsciamente, la Sicilia è stata vittima di questa sindrome? Di un senso di altezza millenaria frustrato dalle infauste circostanze che ciclicamente l’hanno afflitta? Quante volte, rimuginando sull’inimitabile e sconfinato patrimonio storico-culturale di cui l’isola dispone, ha creduto che bastasse sbandierare quella mitica affiliazione per cambiare le sorti della propria terra? Sì, la Sicilia sarà anche uno scrigno carico di meraviglie, una cartolina ritagliata nell’eternità. Ma è prima di tutto – nonostante tanti, e i siciliani molte volte in primis, se ne dimentichino – il risultato dello sforzo di generazioni uomini e donne che ne hanno plasmato il volto. L’indefesso tentativo di rinascere, ogni volta, più forti. Per risalire alla vera essenza della Sicilia ci tornano ancora utili, per quanto peculiare possa apparire, le parole di un eccelso forestiero che giunse sull’isola all’indomani della Seconda guerra mondiale. Quel Jean Cocteau che con le sue riflessioni seppe tratteggiare, con una vividezza abbacinante, il cuore di una terra che conobbe solo di passaggio.

Nel 1951 al poeta, drammaturgo e regista francese venne commissionato dall’assessorato al Turismo e allo Spettacolo della Regione Siciliana un diario di viaggio che avrebbe poi visto la luce due anni dopo, nell’uscita inaugurale della rivista Sicilia. Ammaliato dall’opportunità di calarsi in una realtà mitica come quella isolana, e spinto probabilmente dalla voglia di tornare a varcare i confini del mondo dopo lo scempio della guerra, Cocteau toccò con entusiasmo e trasporto tutti i versanti della Trinacria. E mentre il suo sguardo veniva rapito dalla maestosità delle architetture e dal calore di paesaggi al limite del favolistico, una sempre più pressante certezza si impadroniva del suo animo. «Non ci sono solo rovine in Sicilia e commoventi testimonianze di un passato con il quale tutte le civiltà si sono sposate; non ci sono solo le strade solitarie dove circolano i carretti dipinti con scene della Bibbia, trainati da cavalli piumati che sembrano dover partecipare ad un torneo; non ci sono solo i templi morti e i chiostri con i mosaici colorati; non ci sono solo i giardini della Bella e la Bestia e le terrazze battute da ondate di profumi; non ci sono solo i feudi misteriosi pieni di specchiere nere e di busti che tendono le mani fuori dalle nicchie». La Sicilia non si esaurisce alla sua storia e alla sua estetica, per quanto scintillanti. Ma si dipana, si riflette, si incarna nella laboriosità delle genti che l’hanno ricostruita dopo ogni evento traumatico. Che non si sono lasciate immiserire nello spirito dalla decadenza delle bombe o dei disastri. Che non hanno rinunciato ad immaginare per la loro terra natìa un costante progresso sociale e morale. Che quel lascito così ingombrante non l’hanno guardato come un pretesto, ma come un ponte verso nuove frontiere. «C’è una grande diga in costruzione vicino a Troina, – scrive ancora, ammirato dalla determinazione di quelle vite a lui estranee l’autore francese – dove ingegneri e operai sembrano volare su carrelli sopra la voragine, c’è Palermo che ricostruisce il suo Duomo, c’è lo sforzo di tutte le persone per connettere il passato con il futuro, ed essere così degne della loro autonomia, e alle quali auguro buona fortuna con tutto il cuore».

Tra una pagina e l’altra, Cocteau amava dilettarsi anche nelle arti figurative. Se la si legge con attenzione e sensibilità, la sua descrizione della Sicilia, intenta a scrollarsi di dosso per l’ennesima volta le ceneri della sua caduta, appare come una tela dai colori sgargianti. Nella quale, tuttavia, rimane uno spazio bianco, che tocca a noi colmare. Non con le semplicistiche e controproducenti affermazioni di identità. Non con l’accontentarsi di ciò che già abbiamo. Non con il fatalismo che si tramuta in paura di compiere un passo. Ma con la fiducia nelle persone e nella loro intraprendenza. Con la fiducia in noi stessi e nella voglia di dare valore a ciò che quotidianamente viviamo. La medesima che conquistò il cuore di Cocteau. E che, lungo i secoli, ci ha sospinto come un alito di vento favorevole.

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